A partire dal Padiglione Lituania, premiato all’ultima biennale di Venezia, un dialogo con la storica dell’arte e della filosofia Angela Vettese
Il fratello rappresenta l’altro da sé per eccellenza. Incarna l’odio per il diverso, ma anche la possibilità di una riconciliazione: è altro, ma al contempo strettamente connesso al proprio sé. Su questo rapporto indaga la Torah come in Nuovo Testamento e altri testi religiosi, nel tentativo di dare risposte a questa condizione umana. Anche l’arte ha cercato di rappresentare e interpretare il rapporto di parentela così stretta insito nella fratellanza, la sua natura ambivalente e metaforica. Ne abbiamo parlato con Angela Vettese, storica dell’arte e storica della filosofia, direttore del corso di laurea magistrale di arti visive e moda a Venezia. La riflessione comincia con un’analisi del Padiglione Lituania, premiato con il Leone d’Oro all’ultima edizione della Biennale d’arte di Venezia.
Gli artisti del Padiglione Lituania con l’opera Sun and Sea (Marina) mettono in scena una spiaggia con i diversi personaggi che vi prendono parte, mentre gli spettatori osservano la scena dall’alto, quasi fosse una pièce teatrale che rappresenta la vita o, più in piccolo, lo spazio di convivenza con l’altro, il diverso da sé. Quale significato ha questa “messa in scena”?
A me è parso che la rappresentazione abbia a che fare con lo stare insieme in vacanza, cioè in momenti in cui lo stress e la paura dovrebbero essere lontani, ma che in effetti si tratti di rimettere in scena un trauma: quello della mancanza di sicurezza anche nei luoghi più protetti, cioè dell’impossibilità di riparo dall’aggressione possibile del male. Tutta la scena è molto controllata, c’è l’idea di fratellanza incarnata dalle due gemelle ma anche dal convivere apparentemente sereno e cromaticamente delicato dell’insieme. Ma alla fine siamo in un luogo artificiale e lo sentiamo come tale, cioè non come ambito di libertà. In parte mi ha fatto pensare alle colonie elioterapiche organizzate dal fascismo, in parte a certe performance di Fabio Mauri ispirate alle regole delle parate fasciste. Non c’è l’estetismo esausto del nazismo, ma qualcosa che parla di controllo. Questa spiaggia, proprio perché visibile dall’alto, è anche un panopticon, una struttura carceraria alla Foucault.
Quali relazioni hanno i diversi attori della performance tra loro, con il reale e con l’artificiale?
Mi sembrano relazioni di assoluta correttezza formale ma che sottendono un accordo corale sforzato. Una tragedia greca senza via d’uscita, o forse con la sola via d’uscita rappresentata da una disciplina ferrea, dal rispetto delle regole, dal non potere perdere il controllo né disperdere le energie in atti di nervosismo.
Ha accennato al tema della fratellanza, citando la presenza di due gemelle nell’opera. La fratellanza è raccontata sin dalla Bibbia per assumere accezioni molto diverse nel corso della storia dell’uomo, incluse quelle violente, del rifiuto, dell’odio. Come si declina nell’arte questo elemento?
Per Emmanuel Levinas vedere l’altro significa innanzitutto e prima di tutto volerlo uccidere. Essere intimoriti al punto da volerlo annullare. Solo dopo entra in campo la capacità di riconoscerlo come pari e quindi la compassione e l’alleanza, se non addirittura una forma d’amore che porta al sostegno reciproco e solidale. Ma penso che Levinas, appunto, avesse ben presenti alcune coppie di fratelli biblici, come Caino e Abele, cioè chi va e chi resta o chi ha una dose maggiore di aggressività e annulla il suo simile, ma anche come Giacobbe ed Esaù che si combattono la primogenitura con l’aggravante di una lesione fisica che mette uno dei due in uno stato di chiaro svantaggio: cosa che evidenzia come la pietà sia un effetto secondo, non primo, nelle relazioni umane.
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E vorrei anche citare altri casi di coppie sebbene non di fratelli: Abramo ama suo figlio Isacco fino a quando un potere superiore non gli ingiunge di ucciderlo. Nel Vangelo, il figliol prodigo che ritorna toglie al fratello che era sempre rimasto il suo statuto di unico figlio rispettabile presso il padre. Gesù sa bene che verrà tradito da amici, Pietro e Giuda. Giuda si uccide, ma Gesù a Pietro affida la propria comunità. Perché non c’è altra soluzione: perdonare o morire, come del resto, per leggenda latina, fu tra Romolo e Remo. Non c’è possibilità di pace senza ferita, e spesso vince la ferita. In ogni caso, perché la pace non sia rimessa in discussione, occorrono dei vincoli quasi autoritari: mentre l’arte cerca di combattere ogni forma di autoritarismo, è costretta – se è sincera – a prendere atto di questa resistenza dell’uomo a vivere appieno la concordia.
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Si può rappresentare l’odio? La domanda si era posta in maniera importante dopo la Shoah. Gliela ribalto: è possibile rappresentare la fratellanza?
Si può parlare della fratellanza solo a condizione di rappresentarla come una condizione comunque tragica. Come un ripiegamento dopo essersi odiati, o come un ricordo accorato dopo che l’altro è morto o se n’è andato per altre vie. C’è più facilmente solidarietà nella vita e quindi anche nella rappresentazione dei gruppi familiari, perché in quel caso esistono ruoli concordemente ineguali: il padre che guadagna e guida, la madre che presta cure, i figli che ne dipendono e che restano in pace reciproca fino a che ne dipendono. Mi vengono in mente le famiglie di saltimbanchi blu e rosa di Pablo Picasso, ma anche altre situazioni domestiche o di lavoro. A modo suo, Las Meninas di Velazquez è un quadro in cui ciascuno ha il suo posto, il pittore, le bambine, il cane, i reali sullo sfondo, gli altri personaggi adulti che coronano la scena e che vi ribadiscono una gerarchia sia sociale sia anagrafica. E ricordo anche i molti quadri in cui Munch si rappresenta solo – non solo l’Urlo – con una comunità di pari da cui, in effetti, si sente aggredito o isolato o espulso. Se penso alle due gemelle fotografate da Diane Arbus da piccole, vorrei sapere che ne è stato nella vita: sembrano condannate alla vicinanza, come siamesi in attesa di essere distaccate, più che alleate.
Perché parlare oggi di questi temi?
La paura dell’altro è connaturata a chiunque. Il grado di maturità raggiunto da una civiltà mi sembra si possa misurare in termini di tolleranza e la tolleranza può essere utile, oltre che piacevole e appunto civile, perché consente mescolanze, di pensieri, di azioni, di denaro. I popoli con vaste sacche di intolleranza raramente sono ricchi, anzi si impoveriscono in grandi opere per frenare e combattere l’alterità. Questo sono le guerre, ma anche la raccolta di armamenti o la costruzione di muri o la costruzione di centri di contenimento, sosta, attesa, a volte tortura per i diversi. Credo che in un momento come questo, in cui il pianeta è sottoposto per motivi climatici ed economici a una delle sue grandi epoche migratorie, la paura dell’altro non si potrà che alzare. Ci troviamo di fronte a un aumento della conflittualità tra stati e, nello stesso stato, tra popoli conviventi. I fratelli stanno perdendo la disciplina che li potrebbe tenere insieme, la ferita torna a far male e l’altro a fare paura. I fenomeni di antisemitismo a cui stiamo assistendo sono un segno di questo stato di cose, perché il primo altro da abbattere è storicamente spesso stato l’ebreo: il diasporico per eccellenza, quello che si autoesclude dalla comunità maggioritaria e che quindi viene sentito come un potenziale giuda. Il giudeo-giuda della cristianità, ma prima ancora l’ebreo da rendere schiavo in Egitto, se povero perché povero, se colto e scriba, perché capace di attingere a segreti che non dovrebbe capire. E non si sa quanto la storia possa insegnare a non ripetere. Anche il trauma più grave, anzi proprio il meno sopportabile, è spesso così cogente da obbligarci, come nell’opera del padiglione Lituania, a rimetterlo in atto.
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.