A partire dall’unico testo poetico pubblicato dell’intellettuale torinese, un’analisi del suo raporto con la religione, il mito e la scrittura
I rapporti di Furio Jesi con il mondo ebraico sono stati poco raccontati. Sono molto interessanti per capire i saggi successivi, quelli degli anni 70, e per guardare la figura dell’intellettuale torinese a tutto tondo. Entra in contatto con Gershom Scholem, si confronta con i testi di Martin Buber e indaga profondamente i lavori di Franz Kafka. E in quegli anni da alle stampe l’unica sua raccolta di poesie. Ne parliamo con Pierluigi Lanfranchi, studioso di Jesi e professore associato di letteratura greca classica all’università di Aix-Marseille.
Joimag: L’unica raccolta di poesie che Jesi ha pubblicato ha un titolo interessante dal punto di vista dei suoi legami con l’ebraismo: L’esilio. Perché questo titolo e perché la poesia?
Pierluigi Lanfranchi: Le ragioni della scelta del titolo le ha spiegate lo stesso Jesi nel comunicato stampa che scrisse quando uscì la raccolta nel 1970 (ora, dopo un lunghissimo oblio, L’esilio è stato ripubblicato da Aragno pregevolmente curato e commentato da Giacomo Jori). L’esilio cui egli si riferisce è la galut della tradizione culturale e religiosa ebraica, in particolare della tradizione mistica. Nei versi di Jesi il concetto di esilio è ricco di implicazioni. Vi si riconosce una dimensione mistico-teologica: l’esilio di Dio dal mondo come risultato del suo ritrarsi in sé per fare spazio alla creazione, secondo la dottrina dello tzimtzum sviluppata dalla qabalah luriana. Vi è poi una dimensione esistenziale: è l’esilio dell’uomo dall’infanzia, dal mito, da un mondo precluso che possiamo solo osservare da lontano, come Mosè vide la terra promessa dal monte Nebo. Non a caso una figura centrale de L’esilio è Ahasvero, l’ebreo errante della leggenda cristiana, costretto, per aver oltraggiato Gesù, a vagare in eterno e a non poter morire mai. Ahasvero è esiliato dalla sua terra, dal consorzio con gli altri uomini e persino dalla morte. Vi è inoltre un’implicazione poetica nella nozione di esilio in Jesi: è la condizione del poeta che, irrimediabilmente lontano dalle sorgenti originarie della creazione, può scrivere solo riutilizzando i materiali e i luoghi comuni della tradizione.
Jesi ha praticato nella sua breve e intensissima esistenza molte forme di scrittura: la prosa saggistica, genere in cui ha raggiunto risultati straordinari, il romanzo fantastico, la fiaba, e, appunto, la poesia. La scelta di Jesi di praticare più generi mi ha fatto sempre pensare alla frase con cui il politeista Simmaco rispose al monoteista Ambrogio: “Non si può giungere per una sola via a un mistero così grande”. E benché Jesi fosse consapevole che il territorio del mito è inaccessibile, negli anni ’60 deve aver pensato che la poesia potesse comunque condurlo, più di altre vie, vicino alla frontiera.
Joimag: Si può dire che questi poemetti mettano in luce i suoi legami con le origini ebraiche?
Pierluigi Lanfranchi: Non credo che la poesia de L’esilio metta in luce i legami di Jesi con le proprie origini ebraiche. I suoi versi non “mettono in luce”, piuttosto “mettono in ombra”. Se c’è un tempo che domina i poemetti della raccolta è infatti quello della sera e, ancor più, della notte. L’ultima notte è anche il titolo del suo romanzo vampiresco. Voglio dire che i versi di Jesi contengono un certo grado di oscurità. Resistono alla interpretazione, all’esegesi. È innegabile però che ne L’esilio ci siano molti temi ebraici, gli stessi temi che si trovano nella produzione saggistica e in particolare in Germania segreta e in Mitologie attorno all’Illuminismo. In questo senso non c’è soluzione di continuità tra produzione saggistica e produzione poetica in Jesi. E c’è l’evocazione della figura paterna, che costituisce per lui il legame “genealogico” con l’ebraismo. Anche nelle lettere indirizzate ad amici e studiosi negli anni in cui scrive L’esilio, Jesi ricorda il proprio legame “di sangue” con l’ebraismo che lo spinge, lui che non aveva avuto una educazione religiosa ebraica, a studiare l’ebraico. Eppure nei versi de L’esilio niente sembra far riferimento a questo ebraismo “genealogico” e alle origini ebraiche del padre.
Joimag: Il padre Bruno ha un ruolo emblematico però per Furio, che poi indagherà la storia degli ebrei fascisti.
Pierluigi Lanfranchi: Katabasis, la poesia dedicata alla figura del padre Bruno, che morì nel 1943 quando Furio aveva solo due anni, è a mio giudizio la più intensa e struggente de L’esilio. Nel 1935 il giovanissimo Bruno Jesi aveva abbandonato gli studi di giurisprudenza per arruolarsi volontario in una legione di camicie nere impegnata nella campagna d’Africa Orientale. Gravemente ferito durante un attacco con la cavalleria e mutilato a una gamba venne rimpatriato e congedato nel 1939 benché fosse stato “arianizzato” per meriti militari. Lo scrittore Aldo Zargani si ricorda – me l’ha raccontato qualche mese fa a un convegno sulla letteratura ebraica italiana – che Bruno Jesi teneva discorsi di propaganda fascista alla scuola ebraica di Torino. Furio Jesi ha dedicato alcune pagine molto lucide alla drammatica situazione religiosa e culturale degli ebrei fascisti torinesi a cui apparteneva il padre e il cui organo era la rivista La nostra bandiera. Ma in “Katabasis” non c’è nessun accenno esplicito al fascismo del padre. Piuttosto Jesi allude alla fascinazione di Bruno per un mito che egli ha inseguito fino alla distruzione di sé.
Non conobbe tristezza il tuo volto,
solo ira e dolore, e alta gioia
che veniva da lungi per te per te, come tu lungi
fuggisti a cercarla, a cavallo.
Non disperato, ma certo, tu che non conosci paura,
cavalcasti lontano
su terra rossa e su sassi
calcinati dal sole.
Furio, che pure fece scelte politiche radicalmente opposte a quelle del padre e che aveva in orrore il fascismo, specchia se stesso nella figura paterna: Solo negli umili specchi / della casa dei vivi, il tuo viso / credo di trovare nel mio per fuggevoli giorni. / Ma è solo un riflesso sull’acqua, un fuoco / nell’alta notte. Egli sa di non essere immune dal potere fascinatorio del mito che sedusse il padre. Lo confessa in una lettera al suo maestro, il mitologo ungherese K. Kerényi, che lo metteva in guardia dall’impresa di scrivere un libro sui miti nella cultura tedesca del ‘900:
Penso di essere cosciente dei rischi insiti nell’accostare intimamente – come mi propongo di fare – una vicenda di orrore e di morte: il contagio di un tal genere di male trova sempre facile terreno dentro di noi. Ma poiché io stesso, per vivere operando, mi trovo nella necessità di trovare qualche chiarezza in quella parte di me che è più affine o meno difesa nei confronti delle forze oscure agenti nella tragedia tedesca, potrei sperare di compiere un’opera catartica. (lettera del 16 maggio 1965).
La mia impressione è che nei versi de L’esilio Jesi voglia fare i conti con quelle forze oscure accettando la discesa agli inferi (la catabasi) che solo il gesto mitopoetico gli consente. La poesia permette di umanizzare e purificare queste forze oscure dalle loro componenti orride? Oppure comporta un cedimento e un abbandono a queste stesse forze? Mi pare che i versi di Jesi siano percorsi anche da questi interrogativi.
Joimag: Un altro lavoro interessante, a questo proposito, è quello dedicato a Kafka.
Pierluigi Lanfranchi: Kafka occupa un posto centrale nella riflessione di Jesi proprio negli anni in cui scrive i poemetti de L’esilio. E si sa quanta importanza abbia il tema dell’esilio e dell’espulsione per l’autore del Processo e del Castello. Jesi sembra condividere con Max Brod, con cui si confronta in uno scambio di lettere, l’interpretazione teologica “positiva” dell’opera di Kafka: il “Castello”, simbolo del Dio oscuro, è estremamente difficile da raggiungere, scrive Jesi a Brod, e quest’ultimo replica che è sì difficile, ma non impossibile raggiungerlo. Eppure Jesi sottolinea più di quanto non lo faccia Brod l’elemento negativo e tragico della teologia kafkiana e il senso di colpa che caratterizza il suo rapporto con l’ebraismo. Per Jesi il senso della colpa in Kafka sarebbe da mettere in relazione con la facoltà dello scrittore di aprirsi al mito, una facoltà che egli sente confliggere con l’esperienza religiosa ebraica, portatrice di una nozione di divinità estranea al mito. Nelle pagine consacrate a Kafka in Germania segreta, egli scrive:
Prima conferma dell’esattezza di questa supposizione è rappresentata dall’atteggiamento di Kafka verso la sua origine ebraica, vincolo di una realtà ancestrale e collettiva, dalla quale però non può giungere la salvezza. L’ebraismo per Kafka è misterioso patrimonio di immagini mitiche cui egli attinge non garanzie di salvezza, ma simboli orridi e annunciatori di morte.
Mi pare che Jesi riconosca nel complesso rapporto di Kafka con l’ebraismo elementi della propria relazione con la tradizione ebraica. Come per Kafka, anche per Jesi l’ebraismo è “vincolo di una realtà ancestrale e collettiva” e “patrimonio di immagini mitiche” a cui l’autore attinge non senza un profondo senso di colpa. La lettera-confessione a Kerényi, che ho citato più sopra (è Jesi stesso a definirla una “confessione”) è una testimonianza proprio di questo senso di colpa con cui Jesi vive la sua fascinazione per le “forze oscure”. E a me pare che Jesi vivesse come colpa e peccato anche la propria attività poetica, il suo farsi “incantatore” per rievocare il mito. È così che intendo questi versi del poemetto “L’esilio” che dà il titolo alla raccolta:
Nulla valgono a lui, nulla ormai al mutare dei venti
che sospendono lui tra gli abissi di sé e l’estiva traccia,
le persone divine con cui, sole, parlò nelle stagioni trascorse.
Da lungi svanirono quei volti, e solo per fare cessare il dolore
egli, per una volta vana, si fa incantatore,
leva le maschere antiche presso le glicini,
con inariditi carmi, con non simulate attese,
popola sotto le piogge il trivio.
Ché questo è certo peccato.
Joimag: Parlare di Dio o con Dio? Quali sono le risposte che trova Jesi, a partire dal confronto con la mistica ebraica, Scholem e Buber?
Pierluigi Lanfranchi: Ricerca poetica e ricerca religiosa sembrano intrecciarsi in Jesi nella seconda metà degli anni ’60. Uno studioso italiano, Enrico Lucca, ha ritrovato nell’archivio di Gershom Scholem a Gerusalemme alcune lettere indirizzate da Jesi al grande studioso della mistica ebraica. In una lettera del 1966, Jesi esprime a Scholem la propria ammirazione per i suoi libri che gli hanno rivelato le profondità dello spirito ebraico di cui lui – figlio di un ebreo e di una cristiana – supponeva solo oscuramente l’esistenza. Dopo essersi definito uno storico delle religioni, specialista dell’ambito egizio e greco e interessato alle sopravvivenze del mito nella cultura moderna, Jesi aggiunge che studiando i testi della tradizione mistica ebraica “mi sono reso conto che il mio ateismo diviene sempre più esitazione a dare un nome all’oscurità che osservo nelle profondità dell’essere, rifiuto di una denominazione che mi sembra blasfema. Ho studiato nelle opere scientifiche (ma non ancora nei testi originali) il misticismo ebraico, e in questo studio sono stato suo allievo. Ho ricevuto delle illuminazioni che hanno guarito il mio spirito, ma sono stato turbato da tutte le affermazioni mistiche sulla natura di Dio. È possibile parlare di Dio? Ecco il mio interrogativo e il mio turbamento. Vorrei soltanto osservare che Dio è tenebra, e vorrei tacere”.
Viene poi la parte più sorprendente dellla lettera: “La ragione della mia lettera è la seguente: potrebbe dirmi, con tutta la benevolenza pedagogica del maestro, se il mio pensiero è completamente estraneo alla religione ebraica, o se ho la possibilità di rientrare nell’ortodossia? Lei dirà che questo problema deve essere risolto nella mia coscienza. Ma la mia conoscenza è così debole che cerco un maestro capace di guidare il mio pensiero e la mia emozione. Mi sono rivolto a lei perché anche lei è uno storico delle religioni e parla il mio linguaggio”.
Non so se Scholem abbia risposto a Jesi, ma suppongo che la lettera di un giovane italiano che si definisce “fils d’un juif et d’une chrétienne, élevé dans la culture chrétienne” e che gli chiede di certificare l’ortodossia delle sue posizioni teologiche, deve averlo non poco sorpreso. La lettera testimonia dell’irrequietudine religiosa di Jesi, la stessa irrequietudine che percorre i versi de L’esilio che sono un modo di parlare non già di Dio, ma con Dio, secondo la formula di Martin Buber cara a Jesi.
Joimag: In Esoterismo e linguaggio mitologico Jesi dichiara di non possedere e non voler possedere alcuna fede, convinzione o esperienza di carattere religioso: è la risposta ai suoi studi sulla religione?
Pierluigi Lanfranchi: Nel corso degli anni ’70 Jesi si allontanerà sempre più dalle problematiche religiose fino a dichiarare, come ha ricordato lei, di essere estraneo a ogni tipo di esperienza religiosa o mistica. Non credo sia una coincidenza che dopo L’esilio Jesi non scrisse più poesie. O almeno non ne pubblicò più. Fine della ricerca religiosa e fine della poesia coincidono. Anche i riferimenti ai suoi legami “di sangue” con l’ebraismo scompaiono. Nella sua presa di posizione pubblica dopo la Guerra dei sei giorni, Jesi distingue tra un “sionismo spirituale” e un “sionismo politico” e critica molto duramente quest’ultimo, qualificandolo di “mito tecnicizzato”, secondo l’espressione coniata da Kerényi per definire un mito degradato dall’uso politico. Ma sarebbe riduttivo porre la vicenda di Israele e le lacerazioni che essa procurò agli ebrei della diaspora all’origine del rifiuto di Jesi di aderire alla tradizione religiosa ebraica. C’è qualcosa di più profondo nelle posizioni che Jesi assume alla fine degli anni ’60 e che imprimeranno una svolta nei suoi studi nel corso degli anni ’70. Io penso che la catarsi di cui egli parla nella lettera a Kerényi è compiuta. Jesi rinuncia alla volontà di osservare la macchina mitologica dall’interno, il motore immobile che produce i materiali mitologici. Sceglie di osservare dall’esterno ciò che la macchina produce. E allo stesso tempo Jesi non intende più vivere la propria origine ebraica come il “vincolo a una realtà ancestrale e collettiva” e non cerca più nell’ebraismo “un patrimonio di immagini mitiche”, anche se questo significa dismettere i panni dell’ “incantatore” e far tacere le vie dei canti.