La dottrina della metempsicosi e della metensomatosi non ha mai incontrato il favore del giudaismo rabbinico mainstream, che per bocca di Sa‘adia Gaon, già nel X secolo, la condannava come “follia e confusione”
Come sono finite nel giudaismo o almeno in una significativa parte della vita ebraica (quella connessa alla mistica medievale e poi al chassidismo) una dottrina e una credenza che, come è noto, sembrano e sono patrimonio di culture politeiste, prevedendo il ritorno, meglio la reincarnazione, della medesima anima in corpi diversi in tempi diversi? Specifici presupposti (dualistici) e alcune precomprensioni (morali) sono necessari per capirle: che l’anima sia immortale ma non personale, nel senso occidentale per cui vale il principio ‘un corpo, un’anima’; che tale anima possa contrarre difetti e impurità o macchiarsi di peccati, e pertanto debba espiare con una ripetuta vita materiale, una seconda chance che le viene data reincarnandosi (ma senza garanzia che, anche dopo la seconda volta, essa riesca a espiare e a purificarsi, innescanbdo così una catena di reincarnazioni); che in tale ciclicità potrebbe ben tornare nel mondo nel corpo di un animale…
Secondo gli aneddoti agiografici sulla vita del Ba‘al Shem Tov, ad esempio, il ‘fondatore’ del chassidismo sembra credere che il nuovo corpo a cui un’anima peccatrice è destinata, ai fini dell’espiazione, venga deciso e decretato direttamente da una corte celeste, che in un caso specifico scelse che tornasse a vivere nel corpo di un uccello puro: “Se l’animale fosse stato mangiato da uno tzaddiq o se fosse stato usato per il banchetto del santo shabbat, allora l’anima avrebbe potuto trovare il rimedio per i propri peccati e sarebbe stata liberata. Così avvenne. L’anima entrò in un pollo che fu subito venduto a un uomo per la cena di shabbat”. La storia è lunga e articolata, piena di dettagli come tipico degli storyteller chassidici. Ma qui il punto non è tanto la storia quanto la credenza in queste migrazioni dell’anima umana, trans-corporali e trans-temporali, che sembra smentita sia dall’antropologia biblica sia della saggezza rabbinica, le quali, enfatizzando l’unità tra anima e corpo e la centralità delle azioni nonché delle scelte etiche di ciascun individuo, sembrano escludere questa ‘catena di sant’antonio’ espiativa.
Proprio perché alcuni rimandi a questa credenza compaiono per la prima volta in quell’antico testo mistico che è il Sefer haBahir, che risale agli ultimi decenni del XII secolo e composto probabilmente in Provenza, del ghilgul o metempsicosi si è occupato a fondo lo storico-filologo-filosofo della qabbalà Gershom Scholem, in un saggio che si trova nel volume La figura mistica della divinità (Adelphi, Milano 2010, a cura di Saverio Campanini). Il saggio si apre con la domanda: la metempsicosi e la metensomatosi, ossia il passaggio da un corpo all’altro, possono essere idee autoctone del mondo ebraico o sono entrate nel folklore del popolo di Israele per osmosi, per contatto con culture allogene? Possono esservi arrivate direttamente dalle scuole orfiche e neoplatoniche, così apprezzate nel mondo antico? Come è noto, seppure con molte cautele, Scholem propende per l’ipotesi che “si tratti di una tradizione giudeo-gnostica arrivata per vie a noi ignote dall’Oriente nei circoli in cui è nato il Bahir”. Ipotesi vaga, da ogni punto di vista. Cosa sia questa gnosi ebraica Scholem non l’ha mai spiegato in modo chiaro, e quelle ‘vie a noi ignore dall’Oriente’ sanno di mito, un mito sul mito.
Scholem traduce ghilgul con ‘rotolamento’ o persino ‘rivoluzione’, e il saggio è una accurata, anzi meticolosa disamina dei passi del Bahir e di altri scritti mistici che riportano questa dottrina. Nella qabbalà spagnola la trasmigrazione delle anime era considerata ‘un mistero della Torà’, il ‘mistero del passaggio’, ma in essa troviamo anche una chiara limitazione: non tutte le anime sono soggette a questa migrazione in corpi diversi, che in quegli ambienti era vista come una modalità per adempiere al precetto della procreazione nel coso in cui, nella prima o nelle prime incarnazioni, non sia stato ottemperato (specie se ciò è frutto di scelta di vita licenziosa). Scholem si spinge a pensare che questa dottrina, proprio perché si focalizza sugli aspetti riparatori e/o espiatori, sia un corrispettivo teologico ebraico del purgatorio cristiano (a sua volta un’idea inventata in età medievale). Ma le predette limitazioni furono a loro volta presto accantonate e la credenza finì per assurgere a una fede di fatto universale: tutte le anime si reincarnano ora per espiare (quelle dei peccatori) ora per aiutare gli altri ad espiare (quelle dei giusti e dei pii).
Non potendo entrare nelle complesse interpretazioni di tutti i passi in cui si suppone si parli di metempsicosi, vale la pena sottolineare che tale dottrina sortisce anzitutto l’effetto di rompere sia la staticità sia la predeterminazione nella concezione dell’anima stessa: come principio mobile, dinamico, in continuo movimento, l’idea di anima riflessa in questa dottrina si svela multistratificata, fluida, composita. Ergo, estremamente moderna. E poiché si tratta di una credenza e non attiene alla sfera dell’halakhà, pochi risultano i maestri che si sono dati da fare a smentirla, a combatterla come eretica. Eretica era piuttosto la dottrina della ‘mortalità dell’anima’ (ecco forse la vera causa del duro cherem inflitto al giovane Spinoza nel 1656). In fondo, poi, la reincarnazione smentisce automaticamente che l’anima muoia, anzi la proietta in una processo di auto-miglioramento che poteva persino piacere a certi filosofi ebrei di scuola neoplatonica e, se interpretata come parte di un cosmico tiqqun ‘olam, tornava centrale anche nelle nuove ricezioni della qabbalà luriana (la più esemplare delle quali resta, appunto, il chassidismo). Come insegnava rabbi Levi Itzchaq di Berdichev: “Per ristabilire la perfezione del suo corpo [ossia delle sue azioni] una persona deve compiere quei precetti a cui ha disobbedito anche attraverso molti ghilgulim” (Kedushat Levi). Spesso, nel mondo chassidico, le storie connesse al ghilgul sono usate per confortare situazioni di lutto, specie nel caso di figli morti giovani, alla luce della fede che tale morte significa che quell’anima aveva raggiunto il suo massimo grado di perfezione in questo mondo.
A dispetto della sua diffusione in certe epoche e aree di vita ebraica, e pur con tutti gli sforzi esegetico-esplicativi, la dottrina della metempsicosi e della metensomatosi non ha mai incontrato il favore del giudaismo rabbinico mainstream, che per bocca di Sa‘adia Gaon, già nel X secolo, la condannava come “follia e confusione”. Maimonide poi dubitava addirittura che l’anima ‘nascesse’ immortale: a suo dire, l’anima ‘diviene’ immortale se sviluppa la sua parte intellettiva, quella più alta, e si unisce a Iddio Benedetto in un processo conoscitivo al cui servizio stanno sia la moralità sia gli stessi precetti. Alla fine, è chiaro, moralità e osservanza dei precetti sono meglio salvaguardati se si insegna che abbiamo soltanto una vita, una sola chance e non possimo permetterci di sprecarla (e poi, di nuovo, chi ci garantisce che nella prossima reincarnazione le cose andranno comunque meglio?).
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma