Cinque artisti provenienti dalla stessa famiglia, una galleria d’arte e un kibbutz. Ovvero, una storia di arte e dialogo tra due popoli in Israele
Walid, Said, Farid, Asim, Karim. Cinque artisti che appartengono alla stessa famiglia, gli Abu-Shakra, tutti nati e cresciuti a Ummal-Fahm, villaggio arabo sorto a pochi chilometri da Ein Harod, quello che oggi è un kibbutz ma un tempo era il villaggio arabo Ain Jalout. Da qui, e da altri villaggi arabi tutti collocati nella Israel Valley molti palestinesi, nel 1948, furono costretti a scappare a seguito della Guerra d’Indipendenza, e molti di loro trovarono rifugio proprio ad Ummal-Fahm.
Il destino, tuttavia, vuole che questo villaggio e il Kibbutz Ein Harod condividano una storia comune. Pur trovandosi nella Galilea orientale – zona periferica rispetto a Tel Aviv, centro nevralgico dell’arte contemporanea israeliana – sono entrambe considerati due realtà di eccellenza nella rappresentazione dell’arte israeliana, sia ebraica che araba: il Mishkan Museum of Art, fondato nel 1937 nel kibbutz di Ein Harod – uno dei primi e ancora oggi più attivi musei di Israele; e la Ummal-Fahm Gallery, fondata nel 1996 da Said Abu-Shakra, uno dei cinque artisti ospitati in questi giorni presso il celebre kibbutz nella collettiva Spirit of Man, Spirit of Place. Artists of the Abu-Shakra Family at Ein Harod, la prima mostra di soli artisti arabi, mai ospitata in un museo israeliano.
Nel dialogo tra queste due realtà, la Galleria di Ummal-Fahm ha avuto un ruolo cruciale, diventando negli anni un luogo di scambio culturale tra i due popoli, che non ha mai chiuso i battenti, anche in tempi di tensione e di guerra.
Ma la storia incredibile attorno a questa galleria e a questo villaggio è quella di questi cinque artisti appartenenti alla stessa famiglia che hanno rappresentato Israele in numerosi musei e gallerie, anche all’estero. Una mostra di uomini ma anche un omaggio alle donne e al loro ruolo sul percorso di questi artisti. Nel 1969, quando Walid era al suo secondo anno di studi, organizzò corsi d’arte nella stanza degli ospiti della casa di sua madre, dove insegnò a dipingere ai bambini del villaggio.
Nell’omaggiare quest’incredibile produzione locale e storia famigliare, i due curatori, Galia Bar Or e Housni Alkhateeb Shehada, hanno comunque deciso di dedicare ad ogni artista uno spazio specifico in modo da permettere al pubblico di “perdersi” liberamente attraverso le opere e la storia di questi cinque artisti di fama internazionale.
Procedendo in ordine cronologico, Walid Abu Shakra (1946 – 2019) è stato sicuramente il pioniere e un modello di riferimento lungo il percorso dell’arte arabo-israeliana. Soprattutto per la sua tenacia. A 16 anni il padre lo tolse da scuola perché si mettesse a lavorare e a dare una mano in famiglia, Walid, però, non smise mai di coltivare la passione per il disegno. All’età di 22 anni si iscrive all’Avni Art Institute di Tel Aviv, che gli ha aperto la strada per avere successo all’estero. Soprattutto a Londra, dove ha trascorso il resto della sua vita, pur continuando a dipingere il paesaggio di Ummal-Fahm, dove faceva ritorno una volta all’anno, per dipingere i cambiamenti del villaggio, ormai diventato una città a tutti gli effetti.
Come il fratello maggiore, anche Said Abu Shakra (classe 1956) ha studiato all’Avni Art Institute di Tel Aviv, ma poi nel tempo ha scelto di dedicarsi non tanto alla pittura quanto alla direzione della galleria che nel frattempo aveva aperto con i fratelli. Almeno fino all’arrivo del Covid e alla necessità, da parte dell’artista, di cominciare a scrivere le sue memorie, dando loro forma attraverso il linguaggio visuale che, in questa mostra, si esprime attraverso media diversi: dal video alla pittura astratta.
Cugino di Walid, Said e Farid, Asim Abu Shakra (1961 – 1990), morto di tumore in giovane età, lasciò un segno indelebile nella famiglia e nel panorama artistico locale e nazionale, fortemente influenzato dal fermento della città di Tel Aviv. Qui studiò presso il Kalisher Art Institute dove percepì l’influenza dell’arte internazionale. Giacometti è stato per lui una grande fonte di ispirazione, così come l’arte italiana in generale, soprattutto dalla rappresentazione di Cristo, la cui crocefissione, per Asim, era una metafora della sofferenza del popolo palestinese.
Dopo la morte di Asim, nel 1996, i fratelli Said e Farid fondarono la Umm el-Fahem Art Gallery. Ancora oggi, la galleria funge da ponte tra artisti arabi ed ebrei. Le sue mostre servono come modello di inclusione e tolleranza tra le diverse popolazioni che vivono in Israele, facendo della galleria uno spazio di interazione e dialogo, volto al cambiamento.
Il più giovane, Farid Abu Shakra (classe 1963), come atto politico, ha rifiutato di partecipare all’inaugurazione della mostra, dichiarando di non volersi sentire rappresentato come un “outsider”, ma come un qualsiasi altro artista israeliano. Ha studiato a sua volta al Kalisher Institute, come il cugino Asim, ed è rimasto fortemente condizionato dallo stile di vita telaviviano, al punto da vivere, ancora oggi, tra Umm el-Fahem e la Città Bianca: “La Linea Verde ci passa continuamente tra le gambe” ha dichiarato in un’intervista a Shany Littman, per il quotidiano Haaretz. “Viviamo costantemente nel mezzo della realtà sia israeliana che palestinese. Io mi sento parte di entrambe le culture, pur non identificandomi in nessuna delle due. L’unica vera patria è il mio corpo, che mi può accompagnare ovunque io voglia vivere, fino alla tomba”.
Ultima generazione: Karim Abu-Shakra (classe 1982), nipote di Asim. Contrariamente alla storia dello zio che dovette lottare per poter studiare arte, il giovane Karim, proprio in coincidenza della morte di Asim, venne fortemente incoraggiato dalla famiglia a dedicarsi all’arte per portare avanti la passione e la memoria dello zio mancato, precursore del movimento artistico che poi avrebbe influenzato l’intero villaggio e l’arte palestinese. Il lavoro dello zio Asim è stato una fonte di forte ispirazione per lui, artista prolifico, che ama dipingere la flora e il paesaggio di quel che è rimasto del loro villaggio, sempre più urbanizzato.
“Per un cittadino arabo, vivere di arte è ancora oggi, come all’epoca di mio zio, molto insolito, e raramente le famiglie appoggiano questo tipo di carriera” racconta Karim sempre a Haaretz. “Per me, dunque, è un privilegio vivere della mia arte, anche se molti cittadini israeliani, che amano e acquistano le mie opere, non hanno mai messo piede ad Ummal-Fahm. Per questo credo che l’idea del Kibbutz Ein Harod di ospitarci nel loro Museo sia stata di grande importanza, facendo così scoprire agli ebrei che esiste un villaggio di artisti arabi a pochi chilometri dal kibbutz”.
Un grande esempio di dialogo tra due popoli in un momento storico particolarmente sensibile e in un momento cruciale non solo per la storia dell’arte, ma per tutta la storia israeliana.
Grazie a Fiammetta per aver scritto un bellissimo articolo su un tema così importante.