Nel racconto biblico la descrizione di due sorelle, mogli dello stesso uomo, a volte solidali e disposte a anteporre al proprio specifico interesse quello altrui, a volte divise dalla gelosia e dal rancore…
“Labano aveva due figlie, il nome della più grande era Lea e quello della più piccola Rachel”. Nel racconto biblico, due sorelle mogli dello stesso uomo a volte solidali e addirittura disposte a anteporre al proprio specifico interesse quello altrui, a volte divise dalla gelosia e dal rancore. Il libro di Bereshit/Genesi descrive con pochi tratti decisi le sorelle, cominciando dalla maggiore, di cui viene riferita una cosa soltanto: aveva gli occhi rakhot, un aggettivo variamente tradotto con i termini “smorti”, “deboli”, “cisposi”, “strabici”, “delicati”. Immediatamente dopo il testo aggiunge che “Rachele invece era bella di forme e di aspetto”. Il versetto successivo cala come la conclusione di un sillogismo inevitabile e in certa misura crudele: “E Yaakov amava Rachel”.
Il midrash interviene a completare, ampliare e mescolare il testo biblico. La tradizione ha di solito interpretato il riferimento alla debolezza di vista di Lea come a scarsa bellezza, anche sulla scorta del confronto con la bellezza della sorella. In un midrash riferito da Louis Ginzberg (Le leggende degli ebrei II, Adelphi), invece, anche Lea come Rachel è di bell’aspetto e alta statura, e gli occhi delicati sono il suo unico difetto. Secondo un’altra opinione, riportata nella raccolta di midrashim sul libro di Genesi Bereshit Rabbà, gli occhi di Lea non sono deboli dalla nascita ma lo sono diventati in seguito a causa del piangere ininterrotto. E perché Lea avrebbe pianto tanto a lungo? Per gli accordi stretti da Isacco e Rebecca con Labano, in base ai quali il figlio maggiore avrebbe dovuto sposare la figlia maggiore e il minore la minore, dunque Esaù avrebbe dovuto sposare Lea e Yaakov Rachel. È così che, terrorizzata di andare in sposa a un malvagio, vediamo Lea pregare e piangere al punto di rovinarsi gli occhi (e parallelamente, per un’altra versione del medesimo racconto, Rachel farsi ogni giorno più bella sapendo di essere destinata a un uomo giusto). Commenta rav Hunà: “Grande è il valore della preghiera, che può arrivare ad annullare un decreto cattivo”, una sorte indesiderata come il matrimonio con un malvagio. E non solo, perché Lea sposerà Yaakov addirittura prima della sorella stessa.
Labano, che il midrash descrive come un ingannatore e un mentitore seriale, non vuole pagare di tasca propria il banchetto nuziale che celebrerà il matrimonio di Yaakov con l’amata Rachel dopo sette anni di duro lavoro di lui, e riesce a convincere i vicini a finanziarlo promettendo che farà in modo che lo sposo si fermi altri sette anni a lavorare per la comunità. Ma naturalmente Labano vuole che Yaakov lavori per lui solo. Durante il matrimonio i vicini, che forse si rendono conto di essere stati ingannati, cominciano a intonare un canto – hi Lea! hi Lea! – che Yaakov prende per una semplice espressione di gioia, ma che in realtà contiene lo svelamento dell’inganno di cui lo sposo è vittima: “È Lea! È Lea!”. Innamorato della bella Rachel, Yaakov è sordo agli avvertimenti che gli vengono rivolti ma che non riesce a captare. Con un rovesciamento paradossale, non è in grado di vedere quello che sta accadendo sotto i suoi stessi occhi; qui e ancora per un tratto non è Lea bensì lui il cieco.
La sera, al termine dei festeggiamenti, la sposa viene condotta nella camera nuziale e le luci vengono spente completamente. Quando Yaakov giunge e chiede il motivo del buio assoluto gli viene detto che è buona usanza presso persone che hanno il senso del pudore. Un altro midrash aggiunge che per tutta la notte Yaakov chiama Rachel, che gli risponde da sotto il letto dove è nascosta per meglio aiutare la sorella nell’inganno. Al mattino Yaakov si accorge di avere Lea al fianco e la accusa di essere una “imbrogliona figlia di un imbroglione”. Ma la Lea del midrash non si scompone e ribatte: “C’è forse un maestro che non abbia allievi? Quando tuo padre ti ha chiamato Esaù tu non gli hai risposto?”. Chi la fa l’aspetti, dunque. Yaakov rimane senza parole perché Lea ha colto nel segno facendo riferimento alla sottrazione della primogenitura di cui quello che è ormai suo marito è stato a suo tempo responsabile ingannando l’anziano e cieco padre Isacco. L’ironia della cieca Lea vince l’autoreferenzialità di Yaakov mostrando i limiti del suo comportamento.
Poi, dopo altri sette anni di lavoro, Yaakov sposa anche Rachel, a cui dedica tutte le sue attenzioni. Allora “il Signore vide che Lea era odiata e la rese feconda”, dice il testo biblico. L’edizione Disegni per stemperare traduce “trascurata”, ma la parola ebraica (snuà) fa riferimento all’area semantica dell’odio. Nel midrash Dio interviene a compensare Lea per l’assenza di amore con numerosi figli perché, come recita un salmo, “il Signore sostiene chi sta per cadere”. Vediamo Lea ferocemente derisa per la sua situazione. Perfino i marinai, i viaggiatori e le donne intente a schiacciare l’uva nei tini dicono che sembra giusta ma non può esserlo perché se lo fosse non avrebbe ingannato sua sorella sostituendosi a lei. Allora Dio soccorre Lea, che partorisce il primo figlio soltanto sette mesi dopo il matrimonio e sceglie per lui il nome di Ruben “poiché il Signore ha visto la mia umiliazione, in modo che da adesso il mio sposo mi amerà”. Ruben è etimologicamente reù-ben, “vedete un figlio” che si distingue fra gli altri per il midrash, ma anche “figlio della vista” imperfetta di Lea che si è affidata alla vista perfetta di Dio. Ruben, nato sotto il segno della vista, secondo il mistico cinquecentesco di Tzfat Moshè Cordovero corrisponde al middat hadin, il giudizio divino funzione del diritto impersonale, mentre il secondogenito Shimon, nato sotto il segno dell’udito (shomea: “ascolta”) corrisponde al middat harachamim, la misericordia divina attenta alla singolarità radicale di ognuno.
Mentre a Lea nasce un figlio dopo l’altro, Rachel è sterile e “ebbe invidia di sua sorella”. La rivalità di cui non c’era traccia al momento del matrimonio (e anzi abbiamo visto come in un midrash Rachel aiuti Lea a realizzare l’inganno) esplode adesso per la maternità ottenuta e negata. Per il midrash Rachel invidia le opere buone di Lea dicendo: “Se non fosse giusta, non avrebbe figli”. I figli, in una cultura in cui i compiti delle donne sono estremamente ridotti e definiti, rappresentano le opere per eccellenza, cioè la continuità della vita. Per questo Rachel, nel testo biblico, implora Yaakov di darle dei figli, altrimenti morirà. Rabbi Shemuel commenta il passo riferendo che quattro sono gli uomini considerati come morti anche se ancora in vita: il lebbroso, il cieco, chi non ha figli e chi ha perso tutti i propri beni. Il rovesciamento di ruoli qui sembra completo, con la cieca Lea che vede un futuro attraverso i numerosi figli e Rachele, bella e amata ma orbata di ogni prospettiva, privata di ogni futuro e cioè della vita. Non possiamo seguire l’intera storia, che prosegue con l’ira di Yaakov, nuovi figli per Lea e finalmente anche per Rachel, che dopo aver generato Yosef morirà dando alla luce Beniamino (un altro nome parlante: “figlio della mia destra”, ma anche ben-onì, “figlio del mio dolore”). Per un paradosso, colei che aveva detto che sarebbe morta se non avesse avuto figli muore di parto. Nella visione del profeta Geremia dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, infine, abbiamo “Rachel che piange i suoi figli, che rifiuta di essere consolata per i suoi figli perduti”. Dagli occhi belli sgorgano quelle stesse lacrime che per il midrash hanno portato Lea alla cecità.
Lea e Rachele non sono però soltanto personaggi del midrash, ma anche figure dal valore simbolico e allegorico nella tradizione cristiana. Decisivi, per questo passaggio come per l’intera rilettura (e trasformazione) della radice ebraica del cristiano, gli interventi di alcuni padri della Chiesa. Gerolamo, il celebre traduttore della Bibbia in latino, in una lettera suggerisce che Lia dagli occhi cisposi sia figura della Sinagoga, Rachele dalla vista limpida invece della Chiesa. La polemica iniziata da Gerolamo, e che avrà enorme risonanza per tutto il medioevo e oltre, insiste sulla cecità di quella che viene considerata la lettura ebraica della Bibbia, arida perché ancorata alla sola lettera del testo e perciò incapace di portare salvezza. Le statue di Chiesa e Sinagoga della cattedrale di Strasburgo, di cui il Museo della diaspora di Tel Aviv espone repliche, raffigurano due giovani donne: la prima, Rachele, coronata e in postura trionfante; la seconda, Lea, con gli occhi bendati e il capo reclinato. Una seconda lettura patristica meno marcatamente antigiudaica fa capo a Agostino e Orosio e descrive le due sorelle come i tipi della vita attiva e della vita contemplativa. A questa tradizione fanno riferimento per esempio le statue di Michelangelo conservate nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma. Qui lo scultore rappresenta Lea saldamente piantata a terra, con tratti vagamente mascolini, il capo scoperto e lo sguardo deciso verso il basso; Rachele con il corpo in torsione, le mani giunte in preghiera, il capo coperto e lo sguardo proiettato verso l’alto. Una lettura originale di questa seconda tradizione cristiana, che riflette sulle due sorelle concetti della filosofia greca, è presente nel canto XXVII del Purgatorio della Commedia. Dante riferisce un sogno che ha fatto all’alba, ora dei sogni profetici, sotto il segno del pianeta Venere che è anche la divinità dell’amore.
Giovane e bella in sogno mi parea
Donna vedere andar per una landa
Cogliendo fiori
Il poeta vede una donna giovane e bella che cammina in uno spazio aperto, intenta a raccogliere fiori come la Proserpina del mito.
e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
Ch’i mi son Lia, e vo movendo intorno
Le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
Ma mia suora Rachel mai non si smaga
Dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga
Com’io de l’addornarmi con le mani;
Lei lo vedere, e me l’ovrare appaga”.
Il mio nome è Lia, dice la meravigliosa donna cantando, e con le mie belle mani sto cogliendo fiori per fare una ghirlanda da indossare come ornamento allo specchio. (Non c’è nulla di narcisistico qui: come spiega Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo commento al passo lo specchio rappresenta l’anima umana, a sua volta specchio del divino). Al contrario di me, mia sorella Rachel non distoglie mai gli occhi dal suo specchio, rimanendo ferma in contemplazione tutto il giorno. Rachel, nello specchio dell’anima, è desiderosa di vedere i suoi stessi occhi belli, proprio come io desidero adornarmi grazie all’opera delle mie mani. Così, conclude Lea, raggiungiamo la felicità in modi diversi: mia sorella con la contemplazione e io con l’azione.
Dante è perciò interprete originale della figura di Lea, che è nel passo la vera protagonista. Anche se la rivalità tra le sorelle sopravvive (l’avversativa “ma” a inizio verso), viene messa sullo sfondo. La vita attiva non subisce alcun tipo di svalutazione a vantaggio di quella contemplativa, al punto che Lea, che rappresenta la prima, viene rappresentata come una donna meravigliosa, nient’affatto miope o addirittura brutta. E, ovviamente, non c’è alcuna allusione alla presunta inferiorità della Sinagoga rispetto alla Chiesa, della lettera rispetto al simbolo.
Il personaggio di Lea non ha smesso di parlare in epoca moderna e contemporanea. Un esempio su tutti? La fioraia del film di Charlie Chaplin Luci della città, una Lea cieca come da tradizione ma bella come Rachel, intorno a cui si affaccenda Chaplin/Yaakov nel tentativo di conquistarla. Se ci riuscirà non è dato sapere. Ma le ultime, commoventi parole di lei suonano profetiche: I can see now. Vedo, adesso.