Storie di quotidiana vita ebraica nei “luoghi comuni” delle città del mondo. Una topografia culturale
L’esistenza umana è fondamentalmente espressa nello spazio circostante. Amir Eshel sottolinea che nell’ebraismo lo spazio è duplice: è materiale e visibile nelle case, nelle strade, nei mercati, nelle sinagoghe; nonché anche spirituale e intangibile nei testi, nelle pregherie, nella memoria.
Nel libro Il Sabato, Abraham Joshua Heschel adotta una prospettiva spazio-temporale sull’ebraismo. Descrive infatti l’antico Santuario come il rifugio fisico del divino e il Sabato come un ‘rifugio temporale’, la cui architettura è costruita dalle azioni legate allo Shabat.
L’ebraismo cittadino si inserisce in queste dimensioni, creando degli spazi urbani da comprendere non solo nella loro fisicità, ma in una topografia culturale che si aggiorna continuamente di tradizioni. Lo spazio in una prospettiva di ebraismo urbano è quindi il risultato dinamico di complessi sviluppi sociali.
Lo spazio ebraico per eccellenza è la sinagoga, motore di ogni aspetto di vita comunitaria – sociale, accademico, spirituale. Ma quali altri spazi contraddistinguono la vita comunitaria ebraica di città?
Gli ebrei abitano gli spazi urbani da millenni, laddove l’urbano è inteso come un agglomerato densamente popolato. Un esempio è Roma: la presenza ebraica a Roma risale almeno al 161 a.e.c.
Con la graduale cristianizzazione dell’Impero romano e con il crescente potere papale ciò che era permesso agli ebrei romani fu limitato. Il sito della Comunità Ebraica di Roma riporta come ‘nel 1215 il IV Concilio Lateranense stabilì per gli ebrei il divieto di ricoprire cariche pubbliche e l’obbligo di portare un segno di discriminazione’. Nello specifico fu poi la bolla papale Cum Nimis Absurdum del 1555 ad imporre agli ebrei di vivere segregati in una zona recintata da cancelli. Nacque quindi il ghetto di Roma sulla riva del Tevere – eccetto per alcuni periodi come durante la dominazione francese o la Repubblica Romana, gli ebrei furono rinchiusi nel ghetto fino alla dissoluzione dello Stato pontificio (1870). Le professioni permesse furono rilegate al prestito di denaro su interesse, alla professione medica, ad alcune forme di artigianato, al commercio di generi usati e poveri come gli stracci di vestiti.
È interessante comprendere la storia delle limitazioni imposte agli ebrei in una prospettiva puramente spaziale: le limitazioni fisiche nonché professionali limitarono il processo identitario-spaziale della comunità, comportando anche un’influenza sulla composizione della comunità come è oggi.
Un esempio è la predominanza tra gli ebrei romani del commercio a piccola scala, in negozi permanenti o ambulanti. Possiamo comprendere il negozio stesso come uno spazio dinamico nella sua funzione. Il luogo di lavoro diventa sia funzionale allo svolgimento della professione, che al mantenimento dello sviluppo comunitario in quanto motore sociale. Nonna Rossana, venditrice ambulante in pensione, mi spiega: “il banco è dove ho conosciuto maggior parte dei miei amici ebrei, che non ho conosciuto a scuola, perché a sette anni non mi è più stato permesso di frequentare le lezioni per via delle leggi fasciste. Dietro alla cassa ho imparato il giudaico romanesco: addabbera la chiusa, sta’ attenta a quella tizia. Addabbera i jorbedde, c’è la polizia. Se non al banco, tanti altri amici ebrei abitavano nel mio stesso quartiere e scambiavamo due chiacchiere dal macellaio kosher”. I commercianti ambulanti a Roma, chiamati anche ‘urtisti’, ricevettero nel XIX secolo delle licenze per la vendita poi passate da generazione in generazione. Oggi sono in calo per nuove normative che ne limitano le funzioni.
Il resto degli spazi comunitari condivide questo doppio scopo funzionale-sociale. Ogni comunità ebraica basa la propria quotidianità su uno scheletro infrastrutturale – l’ufficio rabbinico, la scuola, la sinagoga (18, a Roma), il Centro di Cultura e una rete di vendita di prodotti kosher. La comunità di Roma vanta ad oggi anche un Ospedale Israelitico in funzione dal 1600, una Casa di Riposo e una libreria. Nel loro insieme questi spazi permettono il funzionamento della comunità e parallelamente un continuo processo identitario.
Il negozio, il macellaio, la libreria, la pasticceria o la tavola calda kosher possono essere quindi interpretati come parte centrale dello sviluppo comunitario nel senso di spazi di pratiche sociali e culturali. Un chiaro esempio è Boccione, un forno di tradizione ebraica nell’ex ghetto di Roma. Cinzia Moscato, una delle straordinarie donne dietro i tipici dolcetti del forno, spiega: “Boccione è una delle istituzioni ebraiche più antiche di Roma, siamo ormai alla quinta generazione. Tutto è iniziato dalla famiglia Limentani nel XVIII secolo. Si distribuivano i dolci di casa in casa con un carretto. Il forno era nel ghetto e lì è rimasto, non ci interessa allargarci o spostarci di lì. Le ricette sono più o meno invariate e ogni festa ebraica ha il suo dolce: per Purim, il mostacciolo di mandorle e miele, arricchito da un confetto di cannella e scorza d’arancio; per Rosh Hashana una mezzaluna di mandorle con frutta candita, a simboleggiare un anno di dolcezza e colori. Non ci sono ricette: è tutto a occhio tramite una ricetta tramandata di generazione in generazione”.
Boccione è quindi un contenitore riempito di tradizioni ma anche parte attiva nel definirne di nuove: per feste, mishmarot, matrimoni è usanza degli ebrei romani portare dei dolci del forno.
I ristoranti kosher della capitale condividono l’aspetto fisico e immateriale dello spazio comunitario. Sono ben 27 i luoghi dove si può mangiare kosher a Roma – dal cibo tradizionale al sushi, ogni spazio riflette una parte della comunità. La tavola calda (come C’è Pasta e Pasta o Dolce Kosher) è dove si ritrova la tradizione culinaria giudaico romanesca. Noah Zarfati di Dolce Kosher sottolinea: “Tanti dei nostri piatti sono centrali nella tradizione e chi non è in grado di prepararli a casa è contento di ritrovare la propria storia nel nostro negozio. Tutto ha un gusto casalingo, dalle challot per Shabat ai pomodori ripieni col riso”. Dal caffè mattutino per parlare delle faccende comunitarie fino all’ordine di challot o pasti pronti per Shabat, Dolce Kosher è un esempio di uno spazio che aiuta a mantenere viva la comunità su più livelli.
La composizione stessa del gusto kosher romano riflette una comunità variegata. Il menù dei ristoranti rispecchia da una parte l’osservanza delle regole della kasherut (trovando quindi ristoranti dedicati unicamente alle ricette di latte o alle ricette di carne), dall’altra un frammento identitario e storico degli ebrei a Roma, che si compone di realtà diverse: non mancano i ristoranti ‘tripolini’ che offrono i piatti della tradizione libica, come Little Tripoli, rispecchiando la componente degli ebrei tripolini arrivati in città dopo l’espulsione degli ebrei dalla Libia nel 1967.
Il Museo Ebraico di Roma offre tour guidati volti a comprendere passato e presente dell’ex ghetto. Ad oggi la comunità di Roma vanta una struttura che si impegna nel ricordo e nel mantenimento di una storia millenaria, frutto di una miscela di tradizioni. È bene ricordare che gli spazi ebraici in altre città d’Europa persistono anche per contrapposizione e per assenza, lì dove segnaletiche di una giudecca ricordano un passato di presenza ebraica poi scomparsa.