Ospiti dell’associazione culturale Beit Venezia, cinque incisori riflettono sul cambiamento climatico in chiave ebraica. E ora espongono alla Jerusalem Biennale
Venezia, vista sulla carta geografica, ha l’aspetto di una pagina di Talmud. Quelle isole di testo intervallate da spazio bianco lagunare fanno pensare al libro che venne stampato per la prima volta proprio nella città di Marco Polo. A suddividerla in aree specifiche (utili almeno al postino che deve recapitare lettere a domicilio) sono sei sestieri, esattamente come gli ordini del Talmud. O come i giorni della creazione. Si tratta di una tra le infinite magie di quella città invisibile che rapisce chiunque osi camminare nelle sue calli come in un labirinto senza fine, metafisico di giorno e surreale di notte. E oggi, forse, il suo essere altro rispetto a qualunque centro abitato nel mondo è ancor più accentuato, avendo, per un fatto geomorfologico, confinato il traffico all’acqua: a Venezia si va a piedi. Oppure in barca, ma anche in questo caso occorre una certa maestria: barene, secche e marcite costellano la laguna, in un altro labirinto (a volte sommerso) piuttosto insidioso. Perché l’incontrovertibile peculiarità veneziana è che lì natura e uomo sono costretti da sempre a dialogare, in un equilibrio giocato tutto sul filo dell’acqua alta.
Un posto perfetto, dunque, Venezia per parlare di cambiamenti climatici, surriscaldamento globale e strategie per garantire la vita dell’uomo sul suo pianeta natale. Lo hanno fatto cinque artisti, invitati dall’associazione culturale Beit Venezia alla Scuola Internazionale di Grafica. Una meraviglia: il grande laboratorio a tutta altezza in un edificio del ghetto, ha ospitato Andi Arnovitz, Lynne Avadenka, Ken Goldman, Leora Wise e Meydad Eliyahu, per tre settimane. Tempo contingentato quanto prezioso, per confezionare due litografie a testa che fossero rappresentative di un lavoro dedicato all’acqua e al cambiamento climatico, tenendo conto di Venezia. Il tutto, letto in chiave ebraica.
“I riferimenti più immediati sono le parole contenute in Genesi I e II”, spiega Andi Arnovitz, coordinatrice del gruppo e artista a sua volta, originaria del Kansas ma di casa a Gerusalemme, “Ma anche nell’Halakha si parla di salvaguardare il pianeta, per esempio con il divieto di tagliare gli alberi perché serviranno alle generazioni future”. Si muove sicura nel laboratorio della scuola di grafica, i capelli ricci corti le incorniciano il viso, mentre apre e chiude porte, prende in mano lastre di rame, le appoggia sulla pressa, mi mostra il feltro che serve a coprire il metallo e la carta spessa su cui verrà impressa l’immagine.
Usciamo. “Abbiamo seguito delle lezioni per approfondire le tematiche ebraiche legate alla salvaguardia del pianeta”, continua, “Gli studiosi ci hanno presentato alcune soluzioni o progetti a partire proprio dall’ebraismo, dai testi della Torah. E, beh, ce n’è una così semplice da risultare geniale: lo Shabbat. Osservarlo ridurrebbe l’inquinamento e lo spreco su scala planetaria. Provi a pensare a cosa succederebbe se tutti gli abitanti della terra, un giorno alla settimana, uno qualsiasi, si fermassero. Cioè, smettessero di consumare energia, comprare cose, produrne altre, utilizzare l’automobile e altri mezzi di trasporto altamente dannosi per l’ambiente. Si parla di numeri imbarazzanti”. 7,6 miliardi di persone (questa la stima all’aprile 2018 della popolazione globale) che si fermano, osservano lo Shabbat. Per un fatto di ecologia, prima che religioso: una rivoluzione.
E poi. E poi, c’è la questione della resilienza: in che modo l’uomo si adatterà a questi inevitabili cambiamenti?
Andiamo a casa, San Maurizio, dietro San Marco, si fatica a camminare, ponti, calli e campi straripanti di turisti, poi finalmente Andi inserisce la chiave nel portone: una sorpresa. Tappeti, specchi, tavoli e tavolini, lampade, bagni anni 50, mosaici e una cucina da fiaba. Ecco, la cartelletta contenente le opere dei fantastici cinque è lì, pronta a rivelarsi ai miei occhi. In anteprima: le litografie andranno in mostra in Israele nel 2019 per poi essere riprodotte su un magazine creato per raccogliere i lavori artistici e filosofici degli studiosi che succedono al gruppo di Andi nelle residenze di Beit Venezia. “Una premessa”, mi dice Arnovitz con le mani appoggiate sul pacchetto delle stampe, “Il nostro lavoro è iniziato a luglio. Dopo avere selezionato gli artisti partecipanti, ho fatto girare delle cartoline. Sono partite bianche verso i destinatari, ognuno doveva farci sopra qualcosa e spedirle a un altro che avrebbe fatto lo stesso, fino a completare il giro. Come fossero le impronte delle diverse generazioni. Ma anche un modo bellissimo per cominciare a conoscersi”. Tutto questo materiale, insieme alle incisioni, verrà pubblicato in un magazine insieme a saggi e scritti letterari, tra narrativa e poesia, in un contraddittorio interessante. (Il progetto di Beit Venezia infatti prevede di stampare una pubblicazione in inglese da distribuire in tutto il mondo, tra scuole, sinagoghe e altre realtà, ndr). “Perché”, spiega Arnovitz, “L’emergenza clima non va affrontata con il panico, bensì con una pluralità di voci e punti di vista”. Poi, finalmente, mi mostra i singoli lavori.
Andi Arnovitz
Il principio del suo lavoro parte da una vecchia fotografia. “Questa è la casa dove sono nata, nel Kansas. Non esiste più, se l’è portata via un tornado quando ero bambina”, racconta. “Questi fenomeni naturali sono sempre più frequenti e ogni volta più violenti. E l’intervento umano sulla natura ne è una delle cause. Ecco perché parlo di adattamento ai cambiamenti climatici nelle mie incisioni: è un dato di fatto, con cui l’uomo deve fare i conti. Qui a Venezia, la mia attenzione è stata catturata dai camini. Sono tantissimi, spuntano da tutti i tetti e ricordano anche le industrie. E mi sono chiesta quali altre funzioni potrebbero avere. Nell’ebraismo parliamo di Torah come dell’Albero della vita, così ho inserito un albero per ogni camino: un messaggio di speranza, contro il pessimismo globale”. E poi, la clessidra. “L’ho trovata nella mia camera, qui a Venezia, e me la sono portata ovunque. Fino ad arrivare all’incisione: impossibile non pensare al tempo. Siamo nell’urgenza, ovvero in un tempo ormai quasi esaurito!”. Andi Arnovitz è nata negli Stati Uniti, ma dal 1999 vive in Israele
Ken Goldman
“Ho lavorato a due opere che raccontano la fragilità del mondo e Venezia ne è una metafora. Anzi, un campanello di allarme per il mondo intero”, spiega. “Ho raccolto molti frontespizi di libri ebraici pubblicati in questa città tra il 1500 e il 1700. Intanto pensavo a Noè, alla Tevah, all’acqua alta e a quanto si dice nello Shemà a proposito della pioggia, ma anche al racconto di Jona e della balena, insieme all’attualità, all’urgenza di occuparci dei cambiamenti climatici. E la domanda finale, quella che ho seguito, è stata questa: perché dormiamo, se sta succedendo tutto questo? Così ho usato elementi presenti in due frontespizi, uno specchio e una lampada, per dare voce, in modo onirico, a tutti questi pensieri. Ma è solo l’inizio: mi porto a casa l’idea di approfondire questo lavoro”. Ken Goldman è nato negli Usa, ma dal 1985 vive nel kibbutz Schluchot
Lynne Avadenka
“Il mondo è malato. Dunque ho ragionato sulla parola disease che, se si pronuncia con una pausa tra dis e ease, diventa this is. Ecco, così è”, racconta l’artista. Che poi fa un passo indietro: “Lavoro molto sul segno grafico, le lettere hanno un valore espressivo e artistico molto importante. E quando Andi mi ha chiamato per invitarmi a Venezia, stavo lavorando al Talmud di Bomberg, il primo mai stampato. Ho preso quel layout e l’ho utilizzato per un collage: non si poteva leggere, ma al contempo si era attratti dalla pagina, in un contrasto tra leggere e non leggere, guardare e informarsi. Così, ho accettato molto volentieri la proposta veneziana. Dove ho portato avanti due pensieri. Il primo voleva trasmettere un disagio, anche nella forma compositiva: prima il piccolo e poi il grande, in un disequilibrio visivo che costringe il pubblico a pensare. Il secondo invece è legato al giardino. Abbiamo visitato il giardino segreto della sinagoga, una metafora preziosa del grande giardino, del mondo in cui viviamo. E ho creato la mia mappa personale di quel luogo, concentrandomi sulle parole giardino e paradiso, il Pardes, come in un dialogo paradossale: l’impossibilità di viverci e il bisogno di ricrearlo in miniatura”. Lynne Avadenka vive e lavora a Detroit.
Meydad Eliyahu
“Mi interessa lavorare su materiali, colori o motivi ricorrenti del luogo, in relazione all’identità. Sono nato in Israele da una famiglia indiana di Cochin e la relazione tra cultura di provenienza e quella del logo in cui vivo appartiene alla mia storia personale. Venezia è uno stimolo fortissimo per ragionare su questi temi perché è il risultato di moltissime influenze culturali diverse. Ma quello che mi ha conquistato è proprio vedere come Est e Ovest si compenetrano al punto da diventare qualcosa di organico. Al Museo ebraico ho trovato un parokheth, il drappo che ricopre l’haron (armadio sacro) risalente al 17° secolo e fatto da una donna di nome Stella di Isacco da Perugia. Mi ha colpito come abbia espresso la sua visione della natura. Il drappo non si è ben conservato, ma le parti mancanti sono molto eloquenti, parlano della relazione tra cose perdute e cose conservate. E io ho potuto inserire la mia visione nella sua. Fino a raggiungere il mio punto di vista, fatto di disastri e di bellezza: mi trovo in mezzo tra atmosfere pastorali e temi catastrofici, insieme a quelli della perdita. Ho lasciato infatti delle parti bianche per ribadire l’idea del frammento. Questa è la via che ho scelto. Insieme all’inchiostro blu: ricorda le piastrelle cinesi della sinagoga di Cochin. È la mia storia, certo, ma anche lo spostamento di un punto di vista. Perché nella cultura cinese e giapponese la natura è divina, diversamente da quella cristiana che pone l’uomo al centro. Nelle mie incisioni, invece, l’uomo scompare nel paesaggio e va cercato con attenzione nei dettagli”. Meydad Eliyahu vive e lavora a Gerusalemme
Leora Wise
“Nel capitolo primo della Genesi si racconta che il quinto giorno vennero creati i grandi alligatori. Sono i soli animali a essere chiamati con il loro nome e la spiegazione è nel fatto che discendono da altre mitologie del Medioriente, in particolare di Babilonia, secondo cui dall’uccisione di questi mostri marini e dallo spargimento dei loro pezzi in cielo e in terra, vengono creati il mondo, l’acqua, le stelle e il tempo. Meglio, il tempo e le stagioni. Dunque, con la creazione, Dio ha creato l’ordine. La cosa interessante è che i mostri marini sono connessi a Venezia. Sono sempre rappresentati nelle antiche carte geografiche della città, insieme al vento. Era un classico nel medioevo, per scongiurare la paura dei pericoli della navigazione. Allora li ho studiati e disegnati, fino ad arrivare alle mie due incisioni. I mostri marini giocano con un leone, simbolo di Venezia ma anche di Israele. Il mio lavoro è sempre figurativo, studio i soggetti e poi li reinterpreto. Così ho fatto i miei mostri, non li volevo troppo spaventosi. Volevo che le persone potessero relazionarsi con loro e volevo che apparissero come bambini perché attraverso il gioco è possibile riflettere su temi importanti come quello ambientale. Basta pensare alla storia di Jona e la balena!”. Leora Wise vive e lavora in Israele
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.