Il documentario su Golda Meir di Sagi Bornstein, Udi Nir e Shani Rozanes
«Spero che scriverà di me con misericordia». Si conclude con queste parole di Golda Meir l’intervista del 1978 intorno alla quale gravita Golda, in programma domenica 21 nell’ambito della rassegna milanese Nuovo Cinema Ebraico e Israeliano. Nel documentario la “regina del popolo ebraico”, la “madre della nazione”, la prima e unica donna premier di Israele si racconta ai giornalisti della televisione di Stato in una conversazione informale mai trasmessa prima. Miglior documentario al Silicon Valley Jewish Film Festival del 2020, il lungometraggio diretto da Sagi Bornstein, Udi Nir e Shani Rozanes si concentra sui cinque anni di mandato della Meir, dal 1969 al 1974, alternandone le parole e i ricordi con le testimonianze di quanti hanno incrociato la sua traiettoria umana e politica.
Le voci non sono tutte misericordiose come lei avrebbe auspicato, figurandosi l’opera futura di uno storico. Accanto a chi ne esalta le qualità come Zvi Zamir, direttore del Mossad dal 1968 al 1974, che dice di adorarla e di considerarla un eroe della guerra di Yom Kippur, si alzano le voci di quanti, proprio a seguito di quel conflitto, ne hanno auspicato l’uscita di scena. O di chi, come il giornalista pacifista Uri Avnery, membro della Knesset dal 1965 al 1981, pur riconoscendone la grandezza afferma di averla sempre odiata. Ricambiato.
Il documentario segue la parabola della Meir attraverso filmati d’archivio, telegiornali e immagini d’epoca, concedendo solo un breve spazio alla biografia di Golda prima del suo arrivo in Israele. La si vede così bambina, immigrata con la famiglia dall’Ucraina negli Stati Uniti, a Milwaukee, e poi ragazza, pronta a imbarcarsi per la Palestina, dove con il marito Morris Meyerson passerà dalla vita in un kibbutz a quella in un monolocale di Gerusalemme.
Non indulgendo nell’amarcord il film corre spedito attraverso i decenni senza allontanarsi mai troppo dall’intervista inedita. I giornalisti passano dalle domande più strettamente politiche a quelle più intime dando modo all’ex primo ministro di raccontare molto di sé anche solo parlando di sogni interrotti. Sogni mai conclusi a causa di un telefono che squillava regolarmente nel cuore della notte. Lo aveva chiesto lei, che la avvertissero dal quartiere generale dell’esercito di qualunque cosa accadesse, ma anni dopo quegli stessi telefoni sarebbero diventati un incubo ricorrente…
Incubi e sogni, ma soprattutto guerra e pace sono il filo conduttore del racconto. Diventata primo ministro all’indomani della guerra dei Sei Giorni, Golda vedrà segnato il suo mandato da altri due conflitti, la guerra di Attrito e quella di Yom Kippur, e dai continui scontri politici dentro e fuori lo Stato. Dall’alternarsi di voci di quanti l’hanno conosciuta emerge l’immagine di una persona inflessibile e dura, ma capace anche di grande tenerezza e ironia, qualità ambivalenti riconosciute dai suoi stessi oppositori. Il suo essere una donna ormai matura, e pure gravemente malata, non suscita condiscendenza né tanto meno pietà, ma un grande rispetto che non prevede però sconti. Secondo Avnery sarebbe stata proprio la rigidità dell’età ad averle impedito di scendere a compromessi o anche semplicemente a un dialogo, con le parti arabe.
Sulle questioni di genere, in compenso, siamo avanti anni luce. Apparentemente indifferente a ogni logica di eleganza e di femminilità, almeno in quel senso “americano” che bacchetta in un punto dell’intervista, vediamo Golda incontrare sul campo i soldati con le sue grosse e goffe scarpe bianche, diventate suo malgrado iconiche. Già ministro del lavoro e degli affari esteri, era stata definita dal suo predecessore Ben Gurion come “l’unico uomo del mio governo”, un non complimento che pare lei detestasse.
Se la guerra di Yom Kippur resta la tappa decisiva negli anni di Golda al potere il documentario non dimentica altri fatti feroci legati al suo mandato, dalla tragedia del massacro di Monaco del ‘72 agli scontri in casa con le Black Panthers. Leader del partito laburista, nei suoi sette anni come ministro del lavoro la Meir aveva istituito la previdenza sociale, introdotto leggi a tutela dei lavoratori e dato un forte impulso all’edilizia popolare. Come primo ministro, però, si ritrova a deludere le speranze degli ebrei arabi che le chiedono uguaglianza di trattamento rispetto agli immigrati ashkenaziti. Incapace di capire e tanto meno di accettare le manifestazioni delle Black Panthers, che sfoceranno in scontri violenti e porteranno all’arresto di un centinaio di partecipanti, in un incontro mal digerito con i rappresentanti dei mizrahi la si vede alzare un muro invalicabile tra sé e i suoi interlocutori.
Luci e ombre, insomma, intorno a un personaggio affascinante e complesso, capace di sorprendere anche i suoi sostenitori e quanti le stavano più vicini. Gli stessi che, nelle ultime testimonianze raccolte nel documentario, non nascondono gli errori commessi e, in parte, assumono su se stessi la responsabilità della caduta della Madre di Israele.
Bornstein, Nir, Rozanes, Golda
domenica 21 novembre ore 19.25