Una mostra del fotografo francese al museo ebraico di Amsterdam
Zerheilt: Healed to Pieces, guariti a pezzi. La parola è del poeta ebreo di lingua tedesca Paul Celan, che in una lettera scrive di aver subito le distruzioni della Shoah fino al nucleo della propria esistenza e solo allora, fatto a pezzi, di essere guarito. Zerheilt è invenzione poetica dunque, neologismo derivato dall’unione di distruggere (zerstören) e guarire (heilen).
Frédéric Brenner è un fotografo francese che da lungo tempo documenta la vita degli ebrei nella modernità. Per tre anni, dal 2016 al 2019, ha lavorato a Berlino per raccogliere i pezzi dello specchio infranto dell’ebraismo in Germania. Il risultato è una serie di frammenti che non ha alcuna ambizione di rappresentare una totalità, ma solo di suggerire tante vie possibili nelle quali l’identità ebraica si estrinseca, nell’inevitabile intreccio con tante altre identità di cui ciascun individuo è per definizione portatore. Primo grande museo a ospitare la mostra è stato quello ebraico della capitale tedesca tra 2021 e 2022; dal 23 settembre le fotografie sono al museo ebraico di Amsterdam, dove saranno visitabili fino al 3 marzo 2023.
Come annuncia il titolo, lo spaesamento è uno dei grandi temi al centro dell’opera di Brenner. Se sentirsi allo stesso tempo a casa ed estranei rappresenta un motivo tipico della vicenda ebraica in età moderna e contemporanea, di questo sentimento Berlino può essere considerata a buon diritto centro propulsore. Capitale dell’illuminismo ebraico e di innumerevoli esperienze intellettuali e artistiche, ma anche centro in cui è stata pianificata la Shoah e poi per decenni città divisa e quasi priva di presenza ebraica, oggi Berlino è teatro di nuove forme di integrazione e città simbolo della patria comune europea. In questo luogo che tante volte ha cambiato faccia gli ebrei oggi sono tra i protagonisti, a disdetta delle previsioni che qualunque osservatore avrebbe potuto fare solo qualche decennio fa. Perché gli ebrei oggi a Berlino sono così tanti da rendere impossibile di fatto saperne il numero, neanche per approssimazione. Decine di migliaia sono gli iscritti alle comunità ebraiche, ma la popolazione ebraica è di molto superiore, arrivando forse a toccare le 200.000 persone. Molte di queste, in larga maggioranza non appartenenti a istituzioni comunitarie riconosciute, provengono dalla ex Unione Sovietica. Ma non vanno dimenticati i tanti giovani israeliani che hanno scelto Berlino come casa. Tutto è incerto eppure un dato indiscutibile emerge: si tratta della comunità ebraica oggi più in crescita sul suolo europeo.
Immigrati recenti e persone di antica discendenza tedesca, convertiti, chi è di passaggio e chi ha scelto Berlino come nuova casa: sono i protagonisti delle fotografie di Brenner. L’opera dell’artista però non ha intento documentaristico, non si propone cioè di fare un affresco dell’ebraismo berlinese contemporaneo. Brenner suggerisce vie possibili, non mappa un territorio. Non a caso le immagini non vengono accompagnate da cartelli o spiegazioni. Non compaiono neppure i nomi delle persone ritratte. A latere è invece disponibile un depliant con il racconto in prima persona di alcuni degli io che vediamo in mostra. Queste storie, anch’esse anonime, non descrivono le immagini ma raccontano la visione di sé delle persone ritratte e il loro rapporto con la città di Berlino.
Molti sono artisti. C’è un francese di famiglia assimilata che subisce sulla propria pelle l’odio antisemita e per reazione intraprende la via dell’osservanza delle mitzvot, poi accantonata per il pionierismo del kibbutz e infine per il conservatorio a Cincinnati, Ohio. Perché Berlino allora? Per caso forse, o perché è una città così piena di contraddizioni da fare sentire a casa. C’è un ex studente di yeshivà chassidica che ha deciso di abbandonare la propria comunità. Dopo si è soli al mondo, spiega, senza più famiglia e amici, senza istruzione laica, titoli di studio o esperienze di lavoro. Naturalmente anche senza denaro. Perché Berlino? Era il biglietto più economico. Ma si è rivelata, forse, anche un’isola in mezzo a un mondo impazzito.
In una mostra programmaticamente senza un centro, l’ombra della Shoah si affaccia a più riprese, riempie gli spazi, la solitudine e il silenzio in cui galleggiano molti dei protagonisti ritratti. C’è un musicista nato a Gerusalemme che dopo aver osservato per anni scatole e scatole di libri tedeschi dei genitori sceglie Berlino, forse nella speranza un giorno di riuscire ad aprire quelle scatole, sfogliare quei libri. C’è un giovane mandato a una scuola ebraica da genitori che, dopo la caduta del muro, cercano di mettere insieme quello che rimane di un ebraismo orientale annichilito da decenni di dittatura comunista; ma il bambino racconta di strane ossa che spuntano qui e là nel cortile – un antico cimitero ebraico – e della scoperta che l’edificio prima di diventare scuola era stato usato come centro per la deportazione. Berlino è città dove i palazzi crescono sui crateri delle bombe, i parchi coprono quartieri che non esistono più; un luogo dove tutto è memoria e tutti, di conseguenza, non fanno altro che cercare di dimenticare.
Frédéric Brenner non è un fotoreporter i cui scatti catturano l’istante ma un fotografo che compone le proprie opere con attento studio. Il risultato è una serie di ritratti non realistici bensì iperrealistici, quasi metafisici. Nella sua opera l’inaspettato non è rapito al flusso degli eventi e tuttavia è lì, una presenza costante che sgorga dall’incontro dell’artista con la persona ritratta, la quale sceglie quali aspetti di sé sottolineare, quale identità proporre come dominante. L’inatteso e il paradosso dominano la scena. Tutto è eccentrico, sembra dire Brenner, perché non esiste un centro, un luogo definito e stabile, una norma. E allora il centro, la norma se vogliamo, non è altro che l’insieme frammentario delle eccentricità. Il movimento è centrifugo ma anche centripeto. Il risultato a somma zero è la quota metafisica dell’opera.
Se l’eccezione è la norma, largo spazio non può che essere dedicato a coloro che mostrano l’insufficienza di quella logica binaria del genere che è spesso maschera sottile dell’intolleranza. Le esperienze di transgender e crossdressing, d’altronde, sono perfettamente rappresentative della realtà di confine e passaggio che trova proprio a Berlino una delle città elettive. Un’altra fotografia mostra due giovani uomini innamorati con percorsi quanto mai lontani alle spalle: l’uno di famiglia laica, poi studente di yeshivà e oggi rabbino e docente universitario, l’altro a lungo contestatore del modello di vita tradizionale ebraica che con l’amore ha trovato un equilibrio nuovo.
Le dissonanze e le divisioni – in una delle fotografie vediamo un uomo vestito per metà con lo shtreimel e gli abiti tradizionali del chassid, per l’altra metà con camicia e cravatta – interrogano sull’identità. Chi è ebreo? Chi si sente ebreo? Oppure chi nasce da genitori ebrei? Chi pratica le mitzvot? O chi ha una educazione ebraica? O chi viene indicato ebreo dagli altri, per esempio dai custodi della tradizione? O, al contrario, dagli antisemiti? Chi è iscritto a una comunità? Chi ha certe memorie? Oppure un passato famigliare doloroso analogo? Chi vive in Israele? Queste sono le domande poste dalle fotografie di Brenner. E poi ce n’è un’ultima, forse la più importante: poiché l’identità non è un dato statico ma una modalità fluttuante di rappresentare e spesso di rappresentarsi, quelle elencate sono davvero domande rilevanti?
Frédéric Brenner, Zerheilt: Healed to Pieces, Museo ebraico di Amsterdam, fino al 3 marzo 2023