In un film la storia di due artisti, quasi fratelli, lungo le strade di una città invisibile, che non esiste più
Due omini sotto un ombrello camminano per le strade piovose di Cracovia. Si fermano a commentare un palazzo, mangiano un hot dog per strada, intonano qualche strofa di una canzone del passato. Una coppia di normali pensionati, solo che quei due omini sono artisti di fama mondiale che si sono riuniti per girare un prezioso documentario sul loro incontro in Polonia, Hometown, tradotto in italiano con La strada dei ricordi. Sono Ryszard Horowitz, genio della fotografia, e Roman Polansky, regista di pellicole indimenticabili. Hanno vissuto un pezzo di infanzia insieme, dopo la guerra, quando Horowitz era tornato a Cracovia da Auschwitz (è stato uno dei bambini salvati da Oskar Schindler) e Polansky, perduta la madre nel lager e abbandonato da un padre desideroso di dimenticare, convertirsi e riaccasarsi, è stato accudito dalla famiglia di Ryszard.
Questi destini intrecciati, che si sono sfiorati durante tutta la vita prima della rimpatriata a Cracovia cinquant’anni dopo, hanno dato vita a un rapporto familiare tra i due, quasi fraterno. Roman è il fratello maggiore: saccente, quasi un rompiscatole (pretende di tagliare i peli del naso di Horowitz su un taxi in movimento), la prima donna indiscussa – c’è sempre qualcuno che lo riconosce per strada mentre l’altro gode di un discreto anonimato; Horowitz è più mite, più tollerante, anche maggiormente riconciliato con il passato. Torna volentieri nella casa dell’infanzia (il tavolo era proprio qui, dice, riconoscendo gli ambienti, le stanze) mentre Polansky fa qualche gradino della scala che porta all’appartamento della nonna dove ha vissuto per un po’ ma poi scuote il capo e scende: non ce la fa. E lo stesso si può dire per la religione. Ryszard spiega a Roman come si sta in una sinagoga, come ci si comporta, gli passa una kippà da portare in testa, Polansky vuole uscire in fretta perché “chiese e sinagoghe” gli fanno tristezza.
Eppure nell’arte è avvenuto esattamente il contrario. Le fotografie e le immagini di Horowitz (il documentario offre anche l’occasione per riscoprire un artista meraviglioso) sono surreali, fantasiose, provocatorie, ricordano alcuni quadri di Dalì, giocano con la realtà reinventandola con la fantasia e distaccandosene. I film di Polansky sono fisici, viscerali, legati ai traumi vissuti, a quel fardello pesante che ha dovuto portare nel corso di una lunga esistenza piena di tragedie, da quella della Shoah all’omicidio della moglie Sharon Tate, fino all’interminabile vicenda della violenza sessuale verso una minorenne che nonostante sia praticamente caduta in prescrizione, per decisione stessa della vittima, continua a pesare sul regista come uno stigma. La sua risposta l’ha data con L’ufficiale e la spia, il film sul caso Dreyfus, mostrando come sia facile montare un caso quando intorno soffia il vento aspro dell’antisemitismo.
Camminano i due omini, per le strade di Cracovia. Lì dove adesso c’è quel negozio c’era l’ingresso del ghetto, lì c’era il filo spinato che si poteva tagliare con le cesoie (Polansky è stato uno dei pochi a non venire deportato proprio perché il padre è riuscito a metterlo in salvo dall’altra parte), qua il portone principale. Affiorano frammenti di episodi, nomi, suoni. Eppure tutto è cambiato, non è rimasto nulla di quel passato, solo i fantasmi. «Sembra Disneyland» dice uno dei due. E in effetti per tutto il tempo lo spettatore prova insieme ai protagonisti un effetto straniante, come se Roman e Ryszard venissero da un altro tempo, un altro spazio e camminassero per una città invisibile, alla ricerca di qualcosa che hanno perso, senza sapere esattamente cosa sia, senza poterlo ritrovare. Questo cammino potrebbe andare avanti all’infinito, perché non avviene nella città ma dentro se stessi, talvolta è claustrofobico e senza uscite, a volta riporta in superficie per una boccata di ossigeno.
Ed è bellissima una delle immagini finali che riprende dall’alto solo due ombrelli neri che avanzano sotto la pioggia, quasi sovrapposti, quasi sostenendosi l’uno con l’altro. Si ha la sensazione che sotto non ci sia nessuno, che si muovano da soli per magia, fantasmi a cui soltanto il cinema riesce a ridare corpo.