La fine di Sukkot e la conclusione delle festività autunnali
Parte della settimana di Sukkot e, allo stesso tempo, caratterizzati da una propria specificità, storia e ritualità che li distingue dagli altri giorni della festività: ecco Hoshanà Rabbà, Shemini Azteret e Simchat Torah, i giorni finali di Sukkot.
Hoshanà Rabbà, il “piccolo Kippur”
Hoshanà Rabbà, parola aramaica che si può tradurre con “grande salvezza” è parte del periodo di Chol Ha-Moed (i giorni intermedi) di Sukkot e cade nel settimo giorno della festa. Hoshanà è anche il termine per definire una serie di sette preghiere che si recitano in questa giornata compiendo sette hakkafot (processioni) intorno al rotolo della Torah, agitando il lulav e l’etrog, per chiedere redenzione e perdono a Dio. C’è infatti un legame tra Rosh Hashanà e Yom Kippur e Hoshanà Rabbà, tanto che quest’ultima è definita dalla tradizione rabbinica “piccolo Kippur”. Secondo lo Zohar, il giudizio divino sulla persona – e quindi la sua iscrizione nel Libro della Vita o nel Libro della Morte – è stabilito a Rosh Hashanà e sigillato a Yom Kippur, ma reso noto solo a Hoshanà Rabbà. E nel periodo tra le due ricorrenze, è ancora possibile cambiare il verdetto.
Come si fa a capire se le proprie preghiere per essere iscritti nel Libro della Vita sono andate a buon fine? Chen Malul, studiosa della Biblioteca Nazionale di Israele, racconta una storia curiosa su Intermountain Jewish News, a partire da un libro pubblicato nel 1661 ad Amsterdam, contenente delle xilografie che illustrano le festività e i rituali degli ebrei ashkenaziti secondo la descrizione del rabbino austriaco del XIV secolo Yitzhak Ternau. In una delle xilografie, si vedono due persone con in mano le quattro specie ma una delle due è senza testa. Come si spiega? Secondo alcuni esperti ai quali la Biblioteca si è rivolta per risolvere il mistero, esiste una tradizione cabalistica del XIII secolo (di cui si trova traccia anche negli scritti di Ramban) secondo la quale il modo per conoscere il proprio destino sarebbe uscire nella notte di Hoshanah Rabbah ed esaminare la propria ombra al chiaro di luna. Se la luce genera l’ombra di una figura intera, allora non c’è nulla da temere; ma se la luce restituisce l’ombra di una figura senza testa, allora come dire…c’è qualche problema da risolvere!
Al di là di questa curiosità, Hoshanà Rabbà è comunque una ricorrenza in cui la notte è protagonista: si usa infatti restare svegli, anche per la nottata intera, a studiare la Torah. In particolare, è tradizione leggere il Deuteronomio, in quanto ultimo libro della Torah, in vista di ricominciare il ciclo annuale delle parashot dopo Simchat Torah.
Un altro rituale peculiare di Hoshanà Rabbà è quello che si svolge alla fine della recitazione delle hoshanot: i fedeli recitano una preghiera che si conclude con “Una voce annuncia, una voce annuncia e dice”. Una frase misteriosa, che non ha seguito: secondo alcune interpretazioni, si riferisce all’attesa del Messia, secondo altre richiama la voce di Dio che gli Israeliti udirono sul Sinai. Dopo la preghiera, ognuno prende cinque rami di salice (aravot) e li batte a terra per cinque volte, fino a che la maggior parte delle foglie non si sono staccate. Si tratta di un rituale rumoroso, dai tratti quasi aggressivi, che sembra contrastare con l’atmosfera di gioia e serenità di Sukkot. La spiegazione proposta da Rabbi Zev Farber su The Torah.com è questa: il rituale rappresenta un’invocazione a Dio, e presenta delle similitudini con quello che viene ordinato a Giosuè di compiere prima della conquista della città di Gerico. Un’invocazione a che si manifesti la Shechinà, la presenza di Dio, che doni la pioggia, la vita, la salvezza. Ma esporsi, come essere umani, alla forza e alla potenza della presenza di Dio, fa paura e può anche essere pericoloso. Il testo biblico contiene diversi episodi in cui l’approccio inappropriato o incauto a questa evenienza provoca la morte. Così è, ad esempio, per i figli di Aronne, Nadav e Avihù, e per re Azaria nel Libro di Samuele. “A Hoshanà Rabbà ci ritroviamo in questo impaccio”, scrive Rabbi Farber. “Da una parte, vogliamo invocare Dio senza intermediari, affinché oda la nostra supplica per la pioggia, il nutrimento, la vita. Dall’altra parte, cosa può esserci di più pericoloso della presenza di Dio nella stanza?”. Il rituale delle aravot sarebbe quindi un “rituale di trasferimento, nel quale i rami di salice prendono il posto della persona che li tiene in mano e le possibili conseguenze negative dell’invocazione a Dio vengono allontanate battendoli sul terreno”.
Shemini Atzeret e la preghiera per la pioggia
Shemini Atzeret cade il giorno dopo la settimana di Sukkot. Possiamo definirlo “l’ottavo giorno di Sukkot”? Non proprio: da un lato, il legame con Sukkot è evidente, non fosse altro per la data; dall’altro, Shemini Atzeret è una ricorrenza a sé stante. I riferimenti biblici su di essa, spiega Rabbi Paul Steinber su My Jewish Learning si trovano nel Libro del Levitico e in quello dei Numeri. Shemini Atzeret viene in genere tradotto con “l’assemblea solenne dell’ottavo giorno”. Il significato di shemini, ossia “ottavo” è ben chiaro, mentre quello azteret è discusso. Potrebbe venire dalla radice del verbo l’atzor, fermarsi, ma anche riferirsi a una sorta di “estensione” di Sukkot. Secondo Samson Raphael Hirsch, rabbino del XIX secolo vissuto in Germania, la parola va intesa come “raccolta” o “immagazzinamento, conservazione”: nell’ultimo giorno dei festeggiamenti, “immagazziniamo” i buoni sentimenti acquisiti in questo periodo, ne facciamo scorta per affrontare i giorni “normali” (prima della prossima festa, Hannukah).
La ricorrenza di Shemini Atzeret è nota soprattutto perché il suo musaf (la preghiera che dopo la distruzione del Tempio si recita in sostituzione ai sacrifici) contiene una preghiera unica, quella di lode a Dio per il dono della pioggia: Tefillat Geshem secondo la tradizione ashkenazita e Tikkun Hageshem secondo la tradizione sefardita.
Sara Chandler su Jewish Telegraphic Agency scrive che, proprio per la presenza di questa preghiera, Shemini Azteret, benché tendenzialmente trascurata, è “il culmine delle festività ebraiche autunnali, più di Rosh Hashanà e più di Yom Kippur. (…) “È comprensibile che ci sia una tendenza presso gli ebrei della Diaspora a dimenticare le radici agricole di queste festività. Come cittadini di una società industriale, pregare per la pioggia non è in cima alla nostra lista delle cose da fare. La maggioranza di noi dà semplicemente per scontato che il cibo che ci occorre ci sarà comodamente spedito dal luogo in cui cresce”.
Per di più, un certo pensiero razionalista ritiene questo tipo di preghiera incompatibile con la modernità, perché “scarica” sulla preghiera quella che sarebbe la responsabilità dell’uomo, avere cura del pianeta. A tale proposito Chandler afferma: “Dobbiamo continuare a recitare la Tefillat Geshem – non perché crediamo che digiunare e battersi il petto porterà la pioggia – ma perché essa ci ricorda l’equilibrio delicato necessario alla vita per prosperare su questo pianeta. Pregando Dio, non gli chiediamo solo di agire al nostro posto. L’ethos religioso moderno deve avere due funzioni, apparentemente contrastanti: da un lato, l’invocazione a Dio sottolinea l’incapacità umana di dominare le cose; dall’altro, ci ricorda le nostre responsabilità e ci richiama al dovere di agire”.
Simchat Torah, le origini e il ruolo delle donne
Simchat Torah (“La gioia della Torah”) conclude il ciclo delle feste autunnali che sono iniziate con Rosh Hashanà. In Israele coincide con Shemini Atzeret, mentre nella Diaspora si celebra il giorno dopo. Chiamata nel Talmud semplicemente “il secondo giorno di Shemini Atzeret”, l’osservanza di Simchat Torah si afferma durante il Medio Evo. Come la parola stessa suggerisce, la Torah è al centro delle celebrazioni: a conclusione dell’anno, viene letta l’ultima parte e ogni rotolo (sefer) viene estratto dall’aron e fatto girare nel tempio tra canti e balli di gioia, spesso con la partecipazione dei bambini.
Perché la festa della Torah non è menzionata nella Torah? Quali sono le sue origini? Prova a rispondere Rabbi Shlomo M. Brody su Jewish Press. Benché non sia scritto esplicitamente, una serie di indicazioni nel testo biblico hanno suggerito agli studiosi che Mosè avesse stabilito la lettura pubblica della Torah ogni sabato mattina e in occasione delle festività; successivamente, Ezra fece aggiungere il sabato pomeriggio, il lunedì e il giovedì. Tuttavia, non si seguiva un ordine prestabilito: la porzione da leggere veniva scelta in base al tema che in quel momento era più rilevante per la comunità. Nei secoli successivi, si fece strada l’esigenza di un ordine che valesse per tutti, con la divisione delle parashot in corrispondenza delle divere settimane, ma in questo percorso emersero due canoni diversi: quello di Israele e quello di Babilonia. Quest’ultimo aveva separato Shemini Atzeret e Simchat Torah in due giorni distinti: per natura più adatto alle esigenze della diaspora, nell’alto Medio Evo il criterio babilonese finì per prevalere.
Una delle questioni che emerge particolarmente nel giorno di Simchat Torah è quella del ruolo di uomini e donne. Tradizionalmente, infatti, ballare e cantare reggendo i sefarim della Torah è un rituale solo per gli uomini, dal quale le donne sono escluse (per una discussione sulle origini halakhiche del divieto alle donne di toccare la Torah si veda Levi Morrow su Daf Aleph). A questa situazione, le correnti dell’ebraismo danno risposte diverse. Mentre nelle sinagoghe riformate questa divisione è stata abolita e le donne partecipano ai festeggiamenti allo stesso modo degli uomini, l’approccio del mondo ortodosso è diversificato. Alcuni gruppi modern orthodox, come Beit Hillel in Israele, hanno ufficialmente dichiarato che le donne possono unirsi agli uomni e partecipare alle celebrazioni. Negli Stati Uniti invece, la Orthodox Union’s Women Initiative suggerisce un’altra soluzione: la separazione dei generi viene mantenuta, ma le donne possono essere coinvolte in una giornata di discussione e approfondimento sulla Torah, tenuta da esperte e studiose in un’ottica di “da donna a donna”. Questo è il secondo anno dell’iniziativa e sono 44 le sinagoghe coinvolte: ogni lezione durerà tra 35 minuti e un’ora, lo stesso tempo in cui i rotoli della Torah vengono tenuti fuori dall’aron. Emunah Fialkoff, una delle speaker intervistate da Kylie Ora Lobell per il Jewish Journal, afferma: “Penso sia importante non trascurare il bisogno delle donne a studiare la Torah e a trovarvi ispirazione. Ogni persona ha bisogno di un legame con la Torah”. E la rebbetzin Adina Shidman, fondatrice e direttrice del movimento, aggiunge: “Vogliamo continuare a offrire programmi alle donne e trasformare le sfide in opportunità. Il ruolo delle donne nella comunità è fondamentale. Le loro voci, opinioni e prospettive hanno grande valore ed è importante che siano riconosciute e coinvolte”.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.