Influenze della letteratura erotica ellenistica sulla letteratura rabbinica
I primi secoli dell’era volgare sono quelli in cui la narrativa erotica greco-romana raggiunge la massima diffusione. Nello stesso periodo, come noto, a partire dal fusto dell’ebraismo antico si sviluppano due civiltà religiose che diventeranno autonome e in buona misura rivali, quella ebraica rabbinica e quella cristiana. È sufficiente la coincidenza temporale per ipotizzare un’influenza del romanzo di fiction su ebraismo e cristianesimo? Naturalmente no. E infatti non di semplice coincidenza temporale si tratta. Alcuni studiosi tra i quali David Stern dell’università di Harvard – omonimo del più celebre (ri)fondatore della lega di basket NBA – ritengono che il confronto tra romanzo ellenistico e testi fondativi della civiltà rabbinica (e anche di quella cristiana, di cui però qui non ci occuperemo) costituisca una promettente direzione di ricerca. E che il flusso dell’influenza, in questo caso, vada individuato dal romanzo d’amore alla letteratura rabbinica.
Amore, lacrime e martirio . In primo luogo, questa influenza si esercita attraverso la ripresa sia di un carattere fisso sia di uno schema narrativo del romanzo rosa ellenistico, nel quale troviamo quasi invariabilmente la figura di una giovane bella, innocente e casta che diventa oggetto di mire sessuali da parte di un personaggio maschile indesiderato, spesso vecchio, orribile e talvolta brutale. Il romanzo greco fiorisce nel primo mezzo millennio della nostra era con opere popolari come Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, Le etiopiche di Eliodoro, Dafni e Cloe di Longo Sofista o Le efesiache di Senofonte di Efeso. Lo schema narrativo di questi bestseller dell’epoca è ricorrente, con due personaggi principali, di solito giovani bellissimi di sesso opposto, i quali si incontrano, si innamorano a prima vista, talvolta si sposano venendo però forzati alla separazione da agenti terzi. A questo punto comincia una serie di avventure – rapimenti, naufragi, servitù e persecuzioni di ogni genere. Infine i due protagonisti si ritrovano e vivono insieme felici e contenti. Lacrime, sipario.
Tanto per essere chiari, non esistono romanzi analoghi nella letteratura ebraica tardoantica e neanche in quella del periodo precedente (il secondo tempio) o successivo (il medioevo). Tuttavia ci sono molte opere ebraiche che contengono elementi del romanzo ellenistico e motivi ad esso riconducibili nella letteratura cosiddetta tardo e postbiblica, per esempio nel Testamento di Giuseppe, nel libro di Giuditta e nella storia di Susanna che si legge in alcune versioni del libro di Daniele. In questi e altri testi incontriamo il binomio in cui si uniscono stupefacente bellezza e castità assoluta e in cui lo splendore del corpo si fa evidente simbolo della dirittura interiore. Anche la fedeltà di fronte alle tentazioni – vero e proprio test per evidenziare la virtù di un personaggio – è un tema del romanzo che ritroviamo nella letteratura ebraica extracanonica del secondo tempio. Chi non ha mai visto una raffigurazione pittorica della bella e pia Susanna spiata con bramosia dai due “vecchioni”? Tra Cinquecento e Seicento diventa un soggetto di moda, con tele tra gli altri di Lorenzo Lotto e Bernardino Luini, Tintoretto e Veronese, Rubens e Ribera, Carracci e Rembrandt, Artemisia Gentileschi, Guido Reni e Guercino.
Troviamo però la bella casta assediata da turpi tentatori anche qualche secolo più tardi nel Talmud e nel midrash. Qui il contesto storico e narrativo è molto diverso rispetto a quello dell’ebraismo ellenistico fino alla conquista romana, come diversi sono gli scopi degli autori dei testi, i rabbini. Nel trattato Gittin del Talmud, per esempio, si racconta la storia della bellissima Tzafnat bat Peniel, rapita, stuprata e infine venduta come schiava a un uomo straordinariamente brutto (un ulteriore tratto tipico del romanzo ellenistico). Prima di essere assalita dall’uomo, Tzafnat si getta nella polvere invocando Dio. Anche l’invocazione della salvezza nel momento del pericolo è una convenzione del genere romanzo. Possiamo trovare un analogo orientamento in altri testi, tra cui spicca il passo del midrash sul libro delle Lamentazioni, Ekhà Rabbà, relativo ai due figli di rabbi Tzadoq. Il brano è troppo lungo per essere qui riportato, ma potrebbe tranquillamente essere scambiato per la sinossi di un coevo commovente romanzo. I due figli del sommo sacerdote Tzadoq vengono catturati e venduti, il maschio a una prostituta e la femmina a un oste. Data la loro somiglianza, i padroni rinchiudono i due giovani per farli unire e dividersi i nascituri, che saranno anche schiavi. Segue una elaborata scena di riconoscimento tra i due giovani, che ignorano da principio l’identità l’una dell’altro e alla fine – quando scoprono di essere fratelli – si abbracciano e baciano fino a spirare. La morte li sottrae all’unione incestuosa ed è un esempio di testimonianza di fede fino alle estreme conseguenze, cioè di martirio. In questo e altri testi, come il martirio di rabbi Yishmael nella Leggenda dei dieci martiri, il romanzo ellenistico rosa e patetico è il riferimento implicito per la costruzione di narrazioni martirologiche. Una influenza che si trova non meno evidente nella letteratura agiografica e nella martirologia cristiana contemporanea.
La preda seduttrice. Vediamo un po’ più in dettaglio un altro caso, e cioè il midrash su Deuteronomio 21.10-14, il passo della Torà in cui leggiamo le norme a proposito della donna bella catturata in guerra. Il più importante midrash classico su questo brano, contenuto nella raccolta Sifré Devarim, appare profondamente indebitato nei confronti dei classici della letteratura greca e latina che mettono a tema l’attrazione sessuale e le sue spesso tragiche conseguenze. Da Odisseo e Nausicaa a Enea e Didone dunque, fino a un’opera oggi meno nota ma all’epoca diffusa come Le pene d’amore di Partenio. I protagonisti di questa raccolta di storie di amore infelice sono giovani uomini e donne bellissimi e innocenti che suscitano involontariamente l’attrazione irresistibile proprio di quel personaggio che per i più vari motivi non dovrebbe essere attratto. L’esito – neanche a dirlo – è invariabilmente disastroso. Il midrash, che non conosce il principio aristotelico di non contraddizione, procede seguendo due strade interpretative del brano biblico sulla donna preda di guerra. Una si sofferma sulla necessità di proteggere la donna catturata e inerme, l’altra sull’importanza di proteggere coloro che l’hanno catturata, cioè gli ebrei, dalla seduzione della preda.
Al tempo del midrash la possibilità che (inesistenti) eserciti ebraici catturino prede di guerra è del tutto inattuale. Al contrario, che donne ebree diventino prede di guerra è possibile e anzi certo durante la repressione delle rivolte antiromane tra I e II secolo e.v. Le stesse celebri monete coniate in questo periodo dagli imperatori romani Vespasiano e Tito con l’iscrizione Judaea Capta propongono l’immagine di una donna prigioniera, appunto la Giudea conquistata, catturata e ridotta in schiavitù. Non deve stupire perciò l’attenzione del midrash verso la tutela della donna imprigionata: i rabbini non potevano non avere contezza dell’attualità del problema. L’interpretazione più interessante riportata da Sifré Devarim è però quella allegorica di rabbi Akiva, che legge nella donna catturata di Deuteronomio 21 una figura del rapporto di eterno conflitto tra civiltà ebraica e mondo pagano. La donna, per Akiva, non è una prigioniera dal triste destino ma un’esca, una prostituta che si avvicina ai membri del popolo di Israele per sedurli e condurli all’idolatria. L’interpretazione di rabbi Akiva mette perciò in guardia dal pericolo della seduzione della cultura differente (e maggioritaria, all’epoca, ormai anche nelle regioni della sede storica di Israele). In termini moderni – ovviamente anacronistici – parleremmo di etnocentrismo e politica antiassimilatoria. Solo all’apparenza la posizione di Akiva è simile ad alcuni passaggi biblici (per esempio la storia di Sansone e Dalila): enormemente differenti sono infatti i contesti storici e culturali che la esprimono. Qual è in ogni caso la conclusione di Akiva? Secondo il maestro di Bnè Brak la Torà va letta nel senso di rendere la donna più brutta e meno seducente possibile in modo da soffocare il desiderio verso di lei da parte dei figli di Israele. La donna catturata è quindi una metafora della cultura ellenistica nel più classico dei rovesciamenti, quello con cui il conquistato diventa conquistatore e il conquistatore conquistato. Un altro midrash che va nella medesima direzione è quello su Giuseppe e la moglie di Putifar in Bereshit Rabbà. Giuseppe è bello, innocente, capace suo malgrado di suscitare eccezionale impeto sessuale in chi lo guarda; la moglie di Potifar è invece una ninfomane ostile, tentatrice e bugiarda.
Queste interpretazioni sono tutte variazioni sul tema del romanzo erotico ellenistico. Significa che i rabbini del Talmud e del midrash davvero si dilettavano leggendo romanzi rosa nel tempo libero? Certamente no. Le cose sono più complesse e più profonde. La civiltà rabbinica ai suoi albori, infatti, usa temi e modelli ellenistici come questi con lo scopo di plasmare una identità nuova dopo il tracollo dell’autonomia politica ebraica tra I e II secolo e.v. Questa identità nuova, che costituisce il fondamento dell’ebraismo medievale e moderno, viene costruita attraverso l’erezione di barriere nei confronti degli altri, i non ebrei, ma è contemporaneamente segnata dall’assorbimento di temi e stili discorsivi dell’altra cultura – in modo apparentemente paradossale, la stessa dalla quale i rabbini vogliono distinguersi. Questi elementi, tratti dalla civiltà ellenistica e rielaborati, vengono insomma usati esattamente per distinguersi da quella stessa civiltà! No dunque, i rabbini non leggevano romanzi d’amore, ma l’ellenizzazione nel Mediterraneo orientale era profonda a tal punto da toccare e contribuire a plasmare la mentalità e il modo con cui i rabbini collocavano sé stessi e gli altri nel mondo. Ovviamente questa ellenizzazione profonda non riguarda solo il caso del romanzo, e ovviamente non vale solo in una direzione: è anche l’ebraismo a esercitare decisiva influenza sull’ellenismo, per esempio attraverso il cristianesimo che, è bene ricordarlo, prima di trovare una definizione e diventare autonoma religione, non è altro che una corrente interna alla civiltà ebraica.