Quanto l’identità si può definire in rapporto ai principi laici e religiosi? Una disamina delle problematiche, lungo la politica israeliana
Come noto il dibattito politico israeliano dell’ultimo periodo verte sul fallimento da parte di Netanyahu di pervenire a un accordo in grado di formare una maggioranza di governo. Attraverso la cronaca politica emergono – almeno a prestare fede al pericolo evocato da Liberman di una medinat halakhà, di uno Stato sempre più condizionato dalle fonti del diritto ebraico (mishpat ivri), temi decisivi per l’assetto di Israele. Non solo. L’endiadi di “religioso” (dati) e “laico” (hiloni) cui si confronta Israele è tensione che attraversa l’identità ebraica, di Israel come popolo, tout court. Un problema tanto teorico quanto concreto, dunque, come necessariamente si caratterizza il tema dell’identità.
Da un certo punto di vista è corretto dire che nessun ebreo può ignorare l’esistenza dell’Halakhà – nella misura in cui questa non solo definisce chi è ebreo, ma costituisce la struttura stessa dell’ebraismo. Anche quando ci si definisce ebrei a prescindere dall’Halakhà, o attraverso una sua modulazione differente da quella dell’Ortodossia, lo si fa comunque prendendo le mosse – seppur attraverso una negazione o una critica – dall’Halakhà. D’altra parte vivere la propria condizione ebraica, nelle sue molteplici espressioni concrete, singolari e collettive – e non da ultimo attraverso il sionismo – può prendere forme eterogenee, variamente distanti o in antitesi à ciò che la normativa halakica indica.
Identificazione, distinzione o intersezione con l’Halakhà
A partire da queste osservazioni, e pur nella consapevolezza che le sfumature di ebraismo sono difficilmente sintetizzabili (è famosa la storiella per cui un ebreo in un’isola deserta costruirebbe due sinagoghe, una delle quali quella dove non andare mai – a rappresentare l’esistenza di una molteplicità di identità anche soltanto in foro interiore) è possibile tracciare una mappatura dei differenti modi di declinare la propria identità ebraica, sia come singoli che come collettività. Ossia dei differenti modi di concepire il peso e la funzione dell’ebraismo nel modulare la propria identità di persona, comunità o Stato. È possibile isolare – un po’ artificiosamente, ma allo scopo di cogliere delle costanti su cui riflettere – tre modalità di concepire il proprio rapporto con l’Halakhà e il diritto ebraico (mishpat iviri): di identificazione completa, di netta distinzione e di intersezione.
Nel primo caso la propria identità ebraica è concepita sulla base della Tradizione. Ognuno di noi conosce la genericità di una simile definizione, nella misura in cui ciascuno ha la propria ‘soglia’ di osservanza (e ogni gruppo, anche volendo per ipotesi restare nell’alveo dell’Ortodossia, presenta sfumature differenti). Pure, vi è una costante: la pacifica sovrapposizione del proprio sé ebraico e di ciò che indica la Tradizione, sia in termini normativi che di significati di ordine metafisico. Vi potrà essere anche chi risolve la propria identità come persona in quella ebraica o, viceversa, chi distingue, senza scindere, il sé ebraico da altre passioni, lavori, interessi. Basti pensare a Maimonide. I componenti di questo gruppo che abbiano particolarmente interiorizzato il lasciato dell’Illuminismo e dell’Emancipazione – lascito tutto diasporico, si potrebbe dire – distingueranno tra la propria identità individuale e di comunità e l’identità dello stato di Israele. Viceversa coloro che ritengano la distinzione tra la sfera, collettiva e individuale, della religione e quella dell’istituzione statale un modello utilizzabile in diaspora (sulla base del principio per cui la legge del tuo stato è la tua legge) ma non nella terra di Israele sotto rinata sovranità ebraica tenderanno a guardare come modello a uno “stato di Halakhà”, fondato sul diritto ebraico. Ora questo ideale può assumere forme differenti. Da quelle puramente speculative, a quelle politiche ma ligie alle regole democratiche sino a quelle eversive – di coloro che ritengono che principi e regole del diritto ebraico (da loro variamente inteso) siano già di fatto superiori alle norme dello stato laico, e da ciò la possibilità, per esempio, di assassinare Rabin in nome dell’illegittimità di cedere frammenti di terra di Israele.
Ora Liberman, come ben noto a chi segua la politica israeliana, non è certo un paladino della cessione di territori e tuttavia, in quanto si riconosce (onestamente o pretestuosamente) nella laicità delle istituzioni di Israele lancia, dagli scranni della destra, un allarme che non può non trovare echi sia a sinistra che al centro. Su questo sfondo, e per contrasto, emerge il secondo modello cui sopra si faceva riferimento, quello che intende la propria identità ebraica – in quanto collettività e istituzione, in Israele, o comunità e singolo, in diaspora – attraverso una distinzione quanto più netta da ciò che è la Tradizione. Così poteva essere per gli autonomisti del Bund (partito socialista ebraico), per le correnti del sionismo socialista o per tanti singoli ebrei. Il paradosso di questa declinazione del sé ebraico, individuale e collettivo, sembrerebbe rappresentato dall’assimilazione, tale per cui magari si resta, per puro caso di nascita, ebrei ma si è perso il senso di questo essere.
Al di là delle molteplici sfumature personali, esiste poi un terzo modello, caratterizzato dall’intersezione. Tizipi Livni, prima di ritirarsi dalla vita politica, aveva messo in guardia con toni accorati dal rischio di “uno stato di Halakhà” che poneva a repentaglio la congiunzione “e” stante tra gli aggettivi di “ebraico” e “democratico”, con cui Israele si caratterizza. Tuttavia nei suoi discorsi Livni si rifaceva agli insegnamenti del Tanakh e dei Profeti (cui la stessa Dichiarazione di Israele fa riferimento). A indicare che la declinazione laica della propria identità ebraica, in Israele come Stato o in diaspora come singoli e gruppi, non debba necessariamente prescindere da una forma di riferimento alla Tradizione. Si tratta, piuttosto, di aver la voce per riappropriarsene, sindacando spazi di convivenza tra diversi modi di intendere l’ebraismo. Una questione teorica, prima che politica. Forse, con uno sguardo ad altri maestri, una questione di egemonia culturale.
Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione; attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.