La Mishnà si interessa del rapporto con chi pratica culti diversi da quello che essa stessa contribuisce a rifondare e che nel corso di alcuni secoli diventerà l’ebraismo rabbinico
La tradizione rabbinica classica solo molto raramente affronta problemi astratti e pressoché mai questioni teologiche, almeno in modo esplicito. Questi problemi erano stati importanti invece con l’incontro tra filosofia greca e civiltà ebraica in età ellenistica e lo saranno nuovamente, e in misura ancora maggiore, nel medioevo quando assumeranno centralità nella configurazione in senso dottrinale dell’ebraismo proposta sia da pensatori razionalisti come Maimonide sia, anche se in modo alquanto diverso, da alcuni maestri di qabbalah. L’approccio dei grandi codici normativi classici – la Mishnà, la Toseftà e i due Talmudim – è però diverso e teso a mappare i comportamenti e i casi della vita quotidiana molto più che a trarre conclusioni generali e astratte sul modello della filosofia greca. Troviamo questo approccio pragmatico e circostanziato anche nel modo in cui l’ebraismo rabbinico classico affronta la questione dell’idolatria. Ovvero non parlandone.
Questo non significa, naturalmente, che la Mishnà non si interessi del rapporto con chi pratica culti diversi da quello che essa stessa contribuisce a rifondare e che nel corso di alcuni secoli – quelli grosso modo della tarda antichità – diventerà l’ebraismo rabbinico. Al contrario, un intero ordine di trattati, Neziqin (“danni”) è dedicato ai rapporti tra uomini, e si chiude con il trattato Avodà Zarà, in cui si riflette sul rapporto tra ebrei e non ebrei. Avodà zarà – letteralmente “culto estraneo”, “culto straniero” ma anche “culto strano” – è espressione che probabilmente deriva dall’episodio biblico in cui i figli di Aronne, Nadav e Avihu, vengono colpiti da Dio perché colpevoli di esh zarà (“fuoco estraneo”), cioè di adorarlo con eccessivo fervore o comunque in modo non corretto. Ma nel Tanakh non si parla in alcun luogo di avodà zarà, una categoria postbiblica che compare per la prima volta nella Mishnà.
A che cosa viene riferita nella Mishnà, e in particolare nel trattato omonimo, questa espressione? Tanto per cominciare, e procedendo per esclusione, non viene mai a indicare un sistema di credenze, insomma quello che in termini odierni definiremmo una religione o una fede. Si riferisce invece alternativamente a due altre differenti dimensioni, l’idolo e l’azione di adorare l’idolo. Dove per idolo – termine di origine greca importante nella filosofia platonica e neoplatonica che rimanda all’area semantica dell’immagine, dell’ombra e dell’immaginazione – intendiamo un oggetto di culto diverso rispetto a quello o quelli consentiti. Quindi avodà zarà è sia la cosa adorata (per esempio la statua di una divinità) sia l’insieme dei gesti di culto verso la cosa adorata (per esempio una certa liturgia). L’introduzione di questa categoria del discorso permette ai rabbini di concentrarsi non sull’idolatria, che come abbiamo detto non è sostanzialmente contemplata come problema teorico, bensì sul rapporto tra ebrei e non ebrei, cioè tra chi segue le norme della Torà e chi non lo fa (e non è tenuto a farlo) perché non le conosce. La Mishnà affronta una serie di casi di incontro, transazione e commercio tra ebrei e non ebrei e li valuta sulla base di questa categoria. L’intero discorso riposa su un presupposto tanto taciuto quanto saldo, secondo il quale la avodà zarà non è rimovibile dalla faccia della terra. Questo è un principio di realtà conservativo rispetto all’ordine vigente, che è quello successivo alle sconfitte subite da parte romana nel I e II secolo e.v. I rabbini della Mishnà, in altre parole, non si chiedono che cosa si possa o debba fare per rovesciare il regime romano, riguadagnare l’indipendenza politica e ricostruire il Tempio; si chiedono invece come si possa vivere da ebrei in condizioni di subalternità politica e a stretto contatto con i non ebrei che abitano le regioni di Giudea, Samària e Palestina storica. All’interno di questo contesto ideale, non stupisce che le norme previste consistano in una serie di restrizioni per gli ebrei – per esempio non commerciare con non ebrei in prossimità della festa di qualche loro divinità, oppure evitare le vie percorse dai pellegrini durante le feste “pagane” – e non prevedano il ricorso a violenza religiosa o ad altre forme anche meno estreme di imposizione sui fedeli di “culti diversi”.
Nel complesso, la tendenza che attraversa nei secoli la tradizione rabbinica sul tema del rapporto con gli “altri” – cioè i seguaci di avodà zarà – va nella direzione di una sempre maggiore permissività. Questo significa che la Mishnà e il midrash più antico – per esempio la Mekhiltà di rabbi Yishmael – sono più intransigenti rispetto al Talmud e al midrash successivo, che a loro volta sono superati in permissività dai testi del medioevo pieno e dell’età moderna. Naturalmente, come vuole la dinamica della tradizione, le fonti successive non intervengono in esplicita rottura verso quelle precedenti – per esempio il Talmud verso la Mishnà – ma le trasformano di fatto dall’interno reinterpretandole e riorientandole, oppure semplicemente lasciando cadere prescrizioni considerate non più applicabili.
Abbiamo detto che nel grande fiume della tradizione rabbinica la Mishnà è sulla avodà zarà il testo più intransigente, ma è bene specificare che si tratta di intransigenza relativa. Innanzitutto perché le norme riguardano esclusivamente i comportamenti degli ebrei affinché questi non abbiano contatti con alcunché di catalogabile come avodà zarà. Consistono dunque in ciò che gli ebrei possono e devono fare per sé e basta. Una prospettiva di guerra santa, jihad o scontro di civiltà non è insomma minimamente presa in considerazione. In secondo luogo le norme servono a tenere a distanza gli oggetti, i comportamenti e le situazioni di avodà zarà, presupponendo perciò come un dato di fatto inevitabile e non per principio negativo il rapporto quotidiano di relazione, scambio e interdipendenza tra ebrei e non ebrei ovunque, incluso nella sede storica del popolo ebraico. In terzo luogo vengono proposte precise pratiche grazie alle quali si può annullare il valore di avodà zarà degli oggetti, che perciò in seguito tornano a essere utilizzabili senza vincoli. Questo è un chiaro indizio di come l’idolatria sia concepita come problema di attribuzione di significato e non come problema metafisico. Infine nel trattato compaiono alcuni passi decisivi leggendo i quali risulta chiaro come per gli anonimi autori l’idolatria non sia un problema oggettivo, determinato cioè dagli oggetti, bensì soggettivo, determinato cioè dall’atteggiamento degli uomini. Nulla di inerente la struttura del mondo quindi, bensì il frutto di superficialità, stupidità, ignoranza o abitudine. Ecco i due brani più considerevoli:
Proclo, figlio di un filosofo, interrogò ad Acco rabban Gamliel mentre stava facendo il bagno nelle terme di Afrodite. Disse: «È scritto nella tua Torà: “Nulla delle cose destinate alla distruzione toccherà le tue mani” (Dt 13,18). Perché fai il bagno nelle terme di Afrodite?». Gli rispose: «Non si risponde [a domande di Torà] alle terme». Quando fu uscito gli disse: «Non sono venuto nel suo dominio, lei è venuta nel mio. Non dire che le terme sono state fatte come ornamento per Afrodite, ma che Afrodite è stata fatta come ornamento per le terme. Un’altra spiegazione: se anche ti dessero una grande somma di denaro non entreresti in presenza di un oggetto di idolatria nudo o come uno che emette liquido seminale o urinando di fronte a esso. Questa [statua] sta presso un canale di scolo e tutti le urinano davanti. [Nella Torà] è detto: “I loro dei” (Dt 12,3), che significa che ciò che trattano come dei è proibito, ciò che non trattano come dei è permesso».
Rabban Gamliel non si fa problemi a frequentare le terme dedicate alla dea greca Afrodite perché considera la sua statua un ornamento per le terme e non, viceversa, le terme un luogo dedicato al culto della dea. Perfino l’oggetto che per eccellenza è riconducibile all’idolatria, una statua di divinità, per l’illustre rabbino non è perciò propriamente un oggetto di idolatria in sé, ma è tale soltanto qualora venga utilizzato per il culto. Quando, come alle terme, ha semplice valore estetico, non costituisce un problema. Il fatto che le terme non siano dedicate al culto di Afrodite, bensì che la statua della dea sia un ornamento delle terme, è confermato dal fatto che l’atteggiamento degli uomini in questo luogo è diverso da quello che terrebbero in un santuario e, se valutato su quel metro, assolutamente irrispettoso.
E più avanti:
Gli anziani di Roma chiesero: «Se [Dio] non vuole l’idolatria perché non la elimina?». [I saggi] dissero: «Se le persone adorassero qualcosa di cui il mondo non ha bisogno, certamente la eliminerebbe. Ma le persone adorano il sole, la luna, le stelle e le costellazioni. Dovrebbe forse distruggere il mondo a causa degli stupidi?». [Gli anziani di Roma] dissero: «Allora perché non distrugge le cose di cui il mondo non ha bisogno senza toccare quelle di cui il mondo ha bisogno?». [I saggi] dissero: «In questo caso sosterremmo gli adoratori di quelle cose [di cui il mondo ha bisogno] perché direbbero: “Ora sai che sono dei perché non sono stati eliminati”».
Se l’idolatria fosse un problema teologico, Dio la potrebbe annientare in un istante. Perché non lo fa? Perché non è annientabile, e non è annientabile perché non sta negli oggetti, cioè nella realtà, ma nell’atteggiamento degli uomini, o almeno di alcuni di loro. È, in altre parole, un problema tutto umano di ignoranza e stupidità. Soltanto attraverso l’educazione degli uomini può essere, almeno parzialmente, risolto. Dio non c’entra nulla: “Dovrebbe forse distruggere il mondo a causa degli stupidi?”.