Storia (e filosofia) di un innovatore spirituale
Poche altre figure, nella storia ebraica, hanno esercitato il fascino di Israel ben Eli‘ezer, più noto come il Ba‘al Shem Tov (1700ca-1760) o Besht, il ‘fondatore’ del movimento chassidico. Di suo pugno non abbiamo nulla di scritto, se non un paio di epistole; la via obbligata per esplorarne la carismatica personalità e le idee resta dunque l’esame delle principali raccolte di storie e di insegnamenti tramandati in yiddish e in ebraico nello stile dell’aneddotica agiografica. A queste raccolte hanno attinto tutti i maggiori divulgatori contemporanei della sua figura: da Martin Buber a Louis Newman, da Shmuel Yoseph Agnon ad Abraham Joshua Heschel ed Elie Wiesel. Non sorprende poi che esistano diverse prospettive o interpretazioni del Besht, così come esistono molteplici declinazioni del suo carisma nelle diverse correnti o dinastie in cui si rifrange il chassidismo stesso.
Data e luogo di nascita del Besht non sono certi, anche se sono tradizionalmente fissati nel 1700 (o 1698) nel villaggio di Okup, in Podolia (una regione situata tra le attuali Ucraina e Moldavia). Prima di rivelarsi in pubblico a trentasei anni, si sposò due volte ed ebbe due figli; viveva nell’oscurità svolgendo mansioni umili, senza distinguersi agli occhi del mondo ebraico circostante; la sua povertà e semplicità divennero presto segni del suo carisma. Dopo la rivelazione, divenne un vero ba’al shem cioè un ‘conoscitore del Nome divino’, termine con cui venivano designati alcuni maestri itineranti, dotati di capacità taumaturgiche ed esorcistiche (magiche, dicono altri), esperti nei “segreti della qabbalà pratica” e che praticavano una medicina popolare a base di erbe curative. Tali ba’alè shem venivano cercati per dare assistenza a ogni tipo di malati nel corpo e nello spirito, senza differenze di classi sociali, anche al di fuori delle comunità ebraiche. Per distinguerne la qualità spirituale, nel caso di Israel ben Eli‘ezer a quel generico appellativo venne aggiunto l’aggettivo Tov. A un certo punto prese casa a Mezhiboz, che divenne il luogo sacro della sua memoria per tutta la cerchia dei suoi discepoli. Tra questi vi furono molti maestri esperti di Bibbia e Talmud, superiori forse in conoscenze ebraiche allo stesso Besht, ma che tuttavia riconobbero la straordinarietà del suo carisma spirituale e, da scettici o avversari, se ne fecero allievi e propagatori.
Dal punto di vista strettamente storico non si può aggiungere altro sulla vita di Israel ben Eli‘ezer; il resto è frutto di una devozione che lo proietta in un’aura mistica; proprio il misticismo è uno dei tratti qualificanti della sua personalità, come attestato dalle diverse testimonianze e dall’unico testo che gli si può attribuire con certezza: una lettera scritta a suo cognato, Avraham Gershon di Kotov, che si trovava nella terra di Israele nell’anno ebraico 5512 [1752]. In questa missiva il Besht rende conto di un’esperienza di ‘ascensione in cielo’ avvenuta cinque anni prima, nel 5507 [1747], per mezzo di una hashba’à, un incantesimo. Pubblicata per la prima volta nel 1781, esiste in due versioni manoscritte. Per risolvere le discrepanze tra queste due versioni, Yehoshua Mondshine, colui che ha rinvenuto il secondo manoscritto in un testo chassidico del 1776, propone la seguente soluzione: l’esistenza di due versioni manoscritte sarebbe dovuta al fatto che il Besht in effetti scrisse due diverse lettere al cognato. “Se la data esatta della prima lettera è sconosciuta, tuttavia va datata a prima del 1750. In quell’anno infatti il Besht ricevette una lettera da suo cognato dalla quale apprendeva che la prima epistola, nella quale era descritta l’ascesa spirituale del 1747, non gli era mai arrivata. Pertanto decise di descrivere la stessa esperienza di ascesa una seconda volta in una seconda lettera. Questa venne stesa nel 1752; e poiché nel frattempo aveva avuto un’altra ascesa dell’anima nel 1750, in questa seconda lettera il Besht descrive anche quest’altra esperienza mistica”.
Sul modello del Ba‘al Shem Tov la dimensione mistica divenne paradigmatica per gli zaddiqim del movimento chassidico e, in un certo senso, parte integrante della chassidut in quanto tale. Nella lettera si afferma, con il linguaggio tipico della qabbalà più antica (o mistica degli hekalot o palazzi), che l’anima del Besht ascese al paradiso superiore, dove vide cose “impossibili da riferire e raccontare”. Nel processo di discesa verso il paradiso inferiore, l’anima del Besht incontrò poi molte anime di vivi e di morti. Nel suo muoversi in questi mondi superni, gli venne concesso di accedere al “palazzo del Messia, che è il luogo in cui il Messia studia la Torà insieme a tutti i tannaiti e gli amoraiti” ovvero i maestri del Talmud. Qui il Besht ebbe, a suo dire, una conversazione con lo stesso Messia sui tempi e gli strumenti della redenzione. I tempi, secondo il Messia, dipendono dagli strumenti: gli jichudim [unificazioni] e le ‘alyiot [ascese] cioè le pratiche stesse – uso delle lettere ebraiche, dei Nomi divini e delle kavvanot [intenzioni] – in cui il Besht era versato e che avrebbe dovuto diffondere tra i suoi contemporanei. Siamo così spinti a interrogarci sul messaggio ovvero gli insegnamenti e le dottrine accreditati al Ba‘al Shem Tov, e in particolare sugli elementi di continuità e di discontinuità con le sofisticate dottrine della qabbalà attribuite a Izchaq Luria, divulgate da Chajjim Vital, e con i modelli di redenzione e/o di messianismo che le diverse tradizioni esoteriche veicolavano. Se di innovazione è corretto parlare, occorre vedere come i punti di continuità siano stati al contempo rielaborati dal Besht e dai suoi discepoli, a volte con sostanziali differenze anche tra i discepoli stessi.
La prima idea-guida è la devequt o unio mystica, l’estasi spirituale quale ideale dell’ebreo quando, attraverso tecniche ascetiche, si prefigge di elevare la propria anima a un grado intimo di comunione con Dio. A partire dagli insegnamenti del Besht la devequt viene indicata come mèta raggiungibile da ogni ebreo pio, da ogni chassid, indipendentemente dal grado di studio, dall’età, dalla condizione sociale. Anche le donne vi possono accedere. Ciò apriva a tutti un ideale considerato quasi inattingibile; per l’ebreo povero degli shtetlach significava concretamente la possibilità di santificarsi e salire ai gradi più alti della santità senza dover abbandonare la propria vita lavorativa e familiare, anzi trasfigurando gli aspetti più umili e banali della vita quotidiana. L’aneddotica della vita del Ba‘al Shem Tov è ricca in questo senso di azioni e situazioni del tutto ordinarie, che vengono elevate a manifestazioni del divino. Questa popolarizzazione della devequt è attribuita alla genialità del Besht e la sua rivisitazione si collega in modo diretto a una seconda idea-guida che emerge dai suoi detti: non v’è luogo privo di Lui [Dio], come si legge in Isaia 6,3: “Tutta la terra è piena della Sua gloria” e come si ripete nella preghiera quotidiana della ‘amidà: mellò kol ha-aretz kevodò.
Il Ba‘al Shem Tov riprende poi l’antica pratica qabbalistica della chavurà qadishà, il santo gruppo di compagni con cui condivide la preghiera e la hitlahabut, il fervore dell’estasi nel servizio divino. Con la hitlahabut, in un certo senso, la barriera tra sacro e profano viene meno per chi fa esperienza della ubiqua Shekhinà nel mondo. Ciò sembrerebbe minacciare uno dei cardini della Weltanschauung rabbinica per la quale è Dio stesso che separa il sacro e il profano, il puro dall’impuro. Non va tuttavia dimenticato che in materia di kasherut e di shechità [alimentazione e macellazione rituali] Israel ben Eli‘ezer e poi i gruppi chassidici erano assai più rigorosi degli altri ebrei, al punto da diffidare degli shochtim [macellatori rituali] che non fossero essi stessi dei chassidim. Molte sono le storie tramandate su tale argomento, fonte di conflitti all’interno degli shtetlach. Sul piano dottrinale il Besht fu attaccato anche per aver considerato il mondo intero pieno di scintille divine, frutto della rottura dei vasi divini (shevirat ha-kelim) al momento della creazione; e poiché nessuno può dire con certezza dove tali scintille siano nascoste, si giustifica l’atteggiamento chassidico che tratta l’intero mondo come il ricettacolo della luce divina che attende di essere liberata. Tale visione fu accusata di panteismo.
Ma il padre spirituale del chassidismo non era un teologo e tanto meno un filosofo, ma un carismatico innovatore spirituale come mostra la seguente storia. Secondo Rabbi Baruch, il nipote del Ba‘al Shem Tov, a suo nonno fu chiesto un giorno: “Qual è l’essenza del servizio divino? Noi sappiamo che in tempi passati sono vissuti uomini che digiunavano da un sabato all’altro, ma voi avete abolito quest’usanza, dicendo che chi si mortifica deve renderne conto come un peccatore… Spiegateci allora qual è l’essenza del servizio divino”. Il Ba‘al Shem Tov rispose: “Io sono venuto in questo mondo per mostrare un’altra via affinché l’uomo acquisisca tre cose: l’amore di Dio, l’amore di Israele e l’amore della Torà. Che bisogno c’è di mortificarsi?”.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma