Hebraica Festività
Il discorso di Rav Ermanno Friedenthal per Rosh HaShanà 5709

Guardare avanti verso la vita, tre anni dopo la Liberazione e la Shoah e a pochi mesi dalla proclamazione dello Stato di Israele

Per concessione della famiglia, pubblichiamo per la prima volta il discorso tenuto da Rav Ermanno Friedenthal, Rabbino Capo di Milano, nel Tempio di via Unione in occasione di Rosh HaShanà 5709 (1948-49). I nostri ringraziamenti a Rav Elia Enrico Richetti per la condivisione del testo e dell’immagine

Rivolgiamo al Signore, con accenti di commossa gratitudine e profondi sentimenti di riconoscenza  “shehecheyànu wekiyemànu wehighi’ànu wekhu”, perché Egli ci ha conservata la  vita, ci ha mantenuto in salute e ci ha fatto giungere alla soglia di questo anno “habà ‘alénu leshalòm”, che ancora è venuto a noi in pace, non turbata, per lo meno in questa parte del mondo, dagli orrori, pur troppo ben noti alla nostra generazione, della guerra che i maggiori dolori ha cagionato ad Israele.

Ma mentre il cuore e la mente si eleva verso il Signore per ringraziarLo del passato, anche se non son mancati dei dolori, delle sofferenze, dei patimenti né a noi né ai nostri fratelli, lo spirito guarda verso l’avvenire e il pensiero angoscioso si chiede in qual modo si succederanno gli eventi nel nuovo anno, che cosa ci è destinato, quale sorte è riservata a noi e ai nostri figli, ai nostri congiunti, mentre coloro che sanno elevare il proprio pensiero fanno la stessa domanda non solo per se stessi ma per “kelàl Israel”, per la generalità d’Israele, per tutti i fratelli sia in Israel, che nei luoghi della dispersione, e chiedono pensierosi “Quale sorte sarà riservata a tutto il nostro popolo? Come potranno essere superate tutte le difficoltà che al minuscolo nuovo Stato si presentano, mentre alle soglie sue si affacciano continuamente migliaia e migliaia di disgraziati fratelli? Queste “rivevòth alfè Israel”, queste “miriadi di migliaia d’Israele” che non hanno ancora trovato requie, quasi a conferma delle parole del nostro Maestro Mosè “Wehayù chayékha teluyìm lekhà minnéghed, ufachadtà làyla weyomàm welò taamìn bechayékha”, “La tua vita sarà sospesa innanzi a te, temerai notte e dì, e non crederai nella tua vita”.

Ed in queste profonde preoccupazioni della sorte nostra e del nostro popolo, il maggiore problema, quello della vita, opprime la nostra mente, e nelle preghiere che con animo contrito recitiamo, imploriamo dal Signore anzitutto questo sommo bene, dal quale sono dipendenti gli altri beni tutti, ed esclamiamo “Zokhrénu lechayìm mélekh chafètz bachayìm wekhotvénu beséfer hachayìm lema’anàkh El chay”, “Ricordaci a vita, o Re che desideri la vita, ed iscrivici nel libro della vita, per amor tuo, Dio vivente!”.

Ma a quale vita noi pensiamo, quale vita attendiamo, per quale vita imploriamo al Dio vivente?

Non certo solo per la vita materiale, fisica, giacché quella è comune per ogni essere vivente, né potevano i compositori delle nostre preghiere alludere solo a quella, ma si riferivano alla vita spirituale, per la quale Israele si distingue da tutti gli altri uomini della Terra.

Infatti della vita siffatta Israele afferma tutti i giorni “ki hi chayénu weòrekh yaménu”, Essa, la Torà del Signore, è la nostra vita ed il segreto della nostra longevità, e perciò “uvahèm nehghè yomàm walàyla”, e sulle parole di questa Legge noi meditiamo giorno e notte.

Chi mai può mettere in dubbio questa verità, che la vera vita d’Israele sia questa, basata sulle fondamenta incrollabili dell’amore, dell’equità, della giustizia? La vita materiale passa, e i giorni dell’uomo assomigliano ad un soffio, ad un alito, che di fronte all’eternità è una cosa misera e minuscola.

Ma quello che non cessa, che non trascorre, che non tramonta è la verità divina della quale dall’inizio del suo affacciarsi alla scena del mondo, Israele, il nostro popolo, è stato sempre il precursore. Già del Patriarca Abramo il Signore aveva detto “Ashèr yetzawwè eth banàw weèt betò acharàw weshamerù dérekh H. la’asòt tzedakà umishpàt“Egli comanderà ai suoi figli ed al suo casato dopo di sé di mantenere la strada del Signore”.

In questa visione, con questo concetto i savi d’Israele chiamavano la vita terrena di ogni individuo: “chayè sha’à”, “la vita dell’ora”, la vita del momento, mentre quella che oltrepassa i limiti angusti della vita terrena, e ci protende verso l’avvenire la chiamano “chayè ‘olàm”, “la vita dell’eternità”, come quella alla quale contribuisce ognuno che si assume il compito di far vedere nella sua vita terrena, che cosa riesce ad ottenere la legge di Dio su di lui, in qual modo egli riesce ad inserirsi nell’eternità, come riesce ad assimilare il mirabile contenuto della legge divina, in modo che contribuisca all’eternità di questo popolo, il quale appunto in forza di questi eterni princìpi meriterà il nome di “’am ‘olàm”, di popolo eterno.

E qui facciamo un esame di coscienza e domandiamoci se noi ed i nostri figli, arra sicura per il nostro avvenire, abbiamo contribuito alla realizzazione di questo immenso compito, se ci siamo mantenuti fedeli alla nostra civiltà, se abbiamo cercato di ottenere, acché i nostri figli si sentano orgogliosi di appartenere a questo popolo eterno, se essi hanno assimilato al meno i princìpi fondamentali del contenuto della saggezza divina che forma il nostro vanto, il nostro decoro, la nostra gloria in tutti i tempi.


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