Questioni storiche e lessicali circa la guerra attualmente in corso
LVerrebbe voglia, parafrasando il titolo di un libro di Avraham Burg, già speaker alla Knesset, che necessiterebbe «sconfiggere Hitler» se si intende fare un qualche significativo passo in avanti nella storia dell’umanità. L’Hitler di cui parlava Burg, e che ritorna nella miriade di affermazioni, discorsi, prese di posizione, comunicazioni e quel tanto altro che circola quotidianamente nell’info-sfera della quale siamo pervasi, è come un ingombrante cadavere che si ripresenta ad ogni giro di boa delle vicende collettive. A partire dai conflitti armati in corso. Una sorta di sua rivincita postuma. Poiché già si è detto, anche su queste colonne, che la guerra presenta sempre due dimensioni, una materiale e un’altra simbolica, è quindi bene riflettere ancora una volta sia sull’una che sull’altra. Ovvero sulle loro interconnessioni, quindi sul fatto che si alimentino vicendevolmente, sostenendosi in un gioco di reciprocità. Parole ed immagini, infatti, possono tanto creare quanto distruggere al pari delle bombe e dei proiettili. Così come riescono ad occultare i dati di fatto, rivestendoli di una sorta di coltre di suoni e di segni la cui unica funzione è di disorientare gli osservatori.
Le recenti affermazioni di Dmitri Medvedev, storico alleato e sodale di Vladimir Putin, sulla controparte occidentale, purtroppo confermano questo prevedibile doppio livello anche nella guerra in corso. Anzi, semmai ne rafforzano il peso: se il conflitto sul campo pare essere divenuto una sorta di labirintico gioco dell’oca, dove ci si muove in avanti e indietro a seconda della casella nella quale ci si ritrova, lo scontro verbale ha invece assunto toni inusitati. Medvedev, da sempre abituato a fare fuoco e fiamme con le sue parole, soprattutto sul web, dando sostanza al delirio paranoico che sempre più spesso sembra accompagnare il putinismo, ha infatti definito gli occidentali, che ha affermato di odiare in quanto tali, come dei «bastardi degenerati», nei confronti dei quali farà di tutto «per farli sparire». Il numero due del Consiglio di sicurezza russo (il suo presidente è lo stesso Putin) sembra non avere troppi dubbi su quali potrebbero essere gli strumenti per dare corso a questa intenzione, essendo tra i maggiori sostenitori del potenziale ricorso all’arsenale nucleare, quanto meno in termini di immediata deterrenza.
Già qualche settimana fa, Medvedev aveva affermato sul suo canale Telegram che «gli europei squittiscono e affogano nella saliva della russofobia», attribuendo alla Nato la responsabilità di una guerra per procura e, ancora una volta, richiamando minacciosamente l’alta plausibilità di un’escalation nucleare. Il sostegno occidentale (tra l’altro, cosa implica questo aggettivo: una dimensione geopolitica, una realtà spaziale, un costrutto culturale o cos’altro?) all’Ucraina è descritto dall’ex presidente russo come una condotta che «potrebbe portare a una crisi catastrofica che si concluderebbe con una grande esplosione nucleare» mentre i processi inflattivi (da Mosca attribuiti al risultato delle sanzioni) provocheranno «un’ondata di criminalità violenta peggiore di quella albanese».
Al netto delle aggettivazioni di chiaro stampo razzista – al momento quasi l’aspetto meno inquietante dell’insieme di prese di posizione profferite quasi quotidianamente dal Cremlino – rimane il fatto che la rete di simbolismi dentro i quali si gioca la guerra in corso rimanda all’immaginario che si è creato durante le guerre mondiali. E con esso, inesorabilmente, al genocidio degli ebrei. Si inquadra in questo contesto, tra gli altri, anche la notizia che il rabbino capo della comunità ebraica di Mosca, Pinchas Goldschmidt, sia fuggito dalla Russia a seguito delle pressioni a cui era stato sottoposto perché sostenesse propagandisticamente l’invasione dell’Ucraina. Ad avere reso nota la fuga è stata Avital Chizhik-Goldschmidt, giornalista negli Stati Uniti e nuora del rav: «Posso finalmente rendere noto a tutti – ha scritto la reporter sul suo account Twitter – che i miei suoceri sono stati messi sotto pressione dalle autorità per sostenere pubblicamente l’“operazione speciale” in Ucraina e si sono rifiutati di farlo. […] Sono fuggiti in Ungheria due settimane dopo l’invasione russa e ora sono in esilio dalla comunità che hanno amato e costruito e in cui hanno cresciuto i loro figli per oltre trentatré anni».
Che cosa sia stata la presenza ebraica in Ucraina, delle quali già ci siamo in parte occupati, è quindi qualcosa su cui tornare. Intrecciando il tema ad altre questioni di fondo dell’attuale crisi bellica. Ossia, soffermandosi per parte nostra sul contesto novecentesco. Il Paese, infatti, è da secoli “schiacciato” – in quanto gigantesca zona cuscinetto – tra due Stati storici, la Russia e la Polonia, entrambi dagli incerti confini. Così come tali sono quelli dell’Ucraina medesima, se si fa eccezione per le regioni meridionali, che sono delimitate dalla fascia costiera del Mar Nero e del Mar d’Azov, oggi vivacemente contesa dai russi. Questa condizione, di per sé peculiare ma non sorprendente, è il risultato di una serie di processi storici e di mutamenti nella composizione etnolinguistica e socioculturale delle terre che fanno capo a Kyiv. Il fatto stesso che la lingua nazionale abbia parentele con il russo e che una parte della popolazione sia non solo russofona ma russificata, ossia legata a doppio filo a Mosca, ci restituisce di per sé l’immagine di una società eterogenea e magmatica. Un elemento, quest’ultimo, sul quale Putin e il suo inner circle ha giocato le proprie carte per muovere una guerra di «denazificazione», laddove l’aggettivo «nazista» è sinonimo di dissolutezza morale («occidentale») ma anche di propensione politica verso quei paesi dell’Europa che hanno dato i natali al fenomeno nazifascista. Il fatto che un tale approccio faccia a pugni con la natura concreta dell’attuale potere moscovita, e con le simpatie che raccoglie in una parte considerevole dell’estrema destra internazionale, nulla toglie alla sua forza propulsiva, laddove è sciorinato quotidianamente come un verbo inossidabile e insindacabile.
Le premesse storiche dell’Ucraina contemporanea peraltro si inseriscono dentro due grandi eventi, di spessore tragico, ossia la guerra civile tra bolscevichi e anticomunisti del 1918-1921 e l’Holodomor, l’assassinio per carestia di una parte del ceto medio rurale per mano di Stalin. Nel marzo del 1918 le truppe tedesche, in virtù del trattato di Brest-Litovsk, che poneva termine alla partecipazione russa alla guerra mondiale, occuparono militarmente le terre ucraine, creandovi un governo ed un’amministrazione fantoccio. L’ingresso dell’esercito «bianco» del generale Anton Denikin l’anno successivo, come parte dei diversi contingenti di truppa che avrebbero dovuto concorrere a schiacciare, con una serie di manovre a tenaglia, il fragile potere bolscevico, pose infine termine a qualsiasi velleità indipendentista degli ucraini. Le cui terre, invece, si trasformarono in un’infinita successione di campi di battaglia, nei quali si consumò una gigantesca quantità di crimini ai danni delle popolazioni civili.
In tutta plausibilità, i simbolismi così come i riferimenti ideologici ai quali fa ricorso Putin quando parla brutalmente di «Occidente», rimandano anche alle memorie di questo passato. Si tratta, nel suo caso, di depurare di qualsiasi residuo comunistico il richiamo a quelle tragedie, presentandole come il riscontro della volontà prevaricatoria e predatoria che da sempre caratterizzerebbe le nazioni «occidentali» di contro alla grande anima slava.
Dopo il 1921, e poi a seguito della nascita dell’Urss, l’Ucraina bolscevizzata divenne parte della federazione sovietica come Stato a sé ma senza alcuna reale autonomia. I nazionalisti, nel mentre, erano già stati respinti, in quanto «controrivoluzionari», verso la Galizia, parte del trascorso Impero austro-ungarico. In quelle terre, l’occidente geografico del vecchio come del nuovo sistema di potere imperiale russo-centrico, i polacchi guidati dal maresciallo Jozef Pilsudski si stavano adoperando per fare rinascere la Polonia dentro i suoi antichi confini, urtandosi quindi da subito contro il movimento nazionalista ucraino. Il bagno di sangue che ancora ne seguì, fu risolto – per così dire – dalla pace firmata a Riga per l’appunto nel marzo del 1921, con la conseguente divisione delle terre tra le due nuove entità statali, la Russia sovietica e la rinata Polonia.
L’ebraismo ucraino già aveva subito le peggiori conseguenze del lunghissimo periodo bellico compreso tra il 1914 e il 1921. La Grande guerra, infatti, in quei luoghi non era terminata nell’autunno del 1918 ma era proseguita con lo stillicidio di violenze di massa nei tre anni successivi. Durante i quali le truppe bianche, ma anche a volte quelle rosse (ovvero comuniste), diedero corso a pogrom, saccheggi e devastazioni di ogni genere. Gli ebrei già avevano in parte abbandonato i territori galiziani, dove erano infuriati i combattimenti, nel mentre le loro proprietà venivano distrutte. Il fatto stesso che le locali comunità facessero ricorso all’yiddish, oltre alle consolidate diffidenze nutrite dalle popolazioni di origine non ebraica, fece sì che venissero spesso considerati come la “quinta colonna” dei tedeschi. I vecchi pregiudizi, alimentati sia dal cattolicesimo uniate che dal cristianesimo greco-ortodosso e dal patriarcato moscovita, si incontravano ora con le esigenze, per così dire, del conflitto tanto guerreggiato quanto ideologico tra comunisti e anticomunisti. La stessa struttura dello Shtetl, il tradizionale distretto rurale ebraico, fu progressivamente disgregata sia dagli eventi bellici che dalla suddivisione delle terre in sovranità diverse. La sua sopravvivenza, infatti, venne velocemente pregiudicata dall’intervento di una molteplicità di fattori, tra i quali il drastico mutamento non solo delle condizioni politiche generali ma anche di quelle economiche. La popolazione ebraica ucraina, al pari di quella slava, fu infatti investita, a partire dalla metà degli anni Venti, dagli effetti della combinazione tra collettivizzazione delle campagne, eradicazione della proprietà «borghese» ed una industrializzazione che, da progressiva, si fece poi forzata e quindi radicalizzata.
Il tessuto sociale e culturale tradizionalista dell’ebraismo ucraino ne rimase ben presto sconvolto, sommando un tale stato di cose alla lunghissima stagione di violenze che aveva preceduto questi repentini cambiamenti. Non di meno, posto che per una parte della società ebraica il bolscevismo non rappresentò un mutamento solo in negativo, tra le generazioni meno anziane il consolidamento dei nuovi poteri federali, che facevano capo a Mosca attraverso il partito unico e le rinnovate amministrazioni territoriali che si venivano costituendo, rappresentò un’opportunità di promozione sociale. Il reclutamento di ebrei, giovani e meno giovani – apprezzati anche per la solidità culturale che esprimevano, insieme ad una forte propensione alla partecipazione politica e a una pronunciata adesione al richiamo “internazionalista” del bolscevismo – nelle burocrazie sovietizzante fu quindi un fenomeno piuttosto diffuso.
Nell’Ucraina entrata a fare parte della moderna Polonia (la cui indipendenza venne sancita dal trattato di Versailles, mentre i confini furono stabiliti nel 1922 e riconosciuti definitivamente nel 1923), la componente ebraica viveva a sua volta la pesante situazione che le derivava dal continuare ad essere considerata non solo come una componente etnicamente estranea al tessuto nazionale ma di rimanere divisa tra filo-comunismo e nazionalismo ucraino. Le due cose, peraltro, spesso venivano fatte coincidere, anche in questo caso con una torsione clamorosa dei dati storici come anche dei riscontri di fatto. L’antisemitismo istituzionale di Varsavia, pur avendo ben poco se non nulla da spartire con quello che avrebbero poi praticato i nazisti, poneva tuttavia come obiettivo plausibile l’emigrazione in massa degli ebrei in quanto soluzione alle frizioni intercomunitarie. Di fatto esso si tradusse in una serie di vincoli alla partecipazione degli ebrei alla vita pubblica, nel mentre nell’Ucraina sovietica ciò non avvenne.
La grande crisi del 1929 si abbatté sull’ebraismo dell’Europa orientale come un ulteriore moltiplicatore di afflizioni, concorrendo a sgretolare ciò che rimaneva delle tradizionali strutture socioculturali ashkenazite. È senz’altro vero che proprio in quegli anni, in ragione anche dei processi di modernizzazione violenta e accelerata che si consumavano in quelle regioni, gli ebrei galiziani conobbero comunque una vivace stagione culturale all’insegna del recupero di un’identità ora però vissuta e rivendicata all’interno dei nuovi paradigmi politici che, tra nazionalismo, socialismo, comunismo e quant’altro, si erano andati affermando. Ma si era ancora solo ad una fase intermedia di un percorso storico destinato a produrre effetti tanto sorprendenti quanto devastanti. Dei quali, a breve, parleremo. Ci basti considerare il fatto che quanto Putin, Lavrov, Medvedev e i loro portavoce rimandano, con il lessico al quale fanno abitualmente ricorso, a quell’Hitler che non è morto, rispolverando l’immaginario russo-centrico, alimentato anche di richiami alla memoria del nazismo, hanno come retroterra storico lo scenario che stiamo ricostruendo. È vero, la storia non si ripete mai ma, non di meno, non passa una volta per sempre se non per gli smemorati.
– Continua –
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Rectius: Verrebbe voglia di dire, parafrasando […] (nell’incipit è saltato un piccolo pezzo di testo)
Rectius: Verrebbe voglia DI DIRE, parafrasando […]