Se il fine è un valore politico, religioso, educativo, allora il problema dell’eticità o meno dei mezzi si pone eccome. Non vederlo è indice di ristrettezza mentale o di cecità ideologica…
Tutti comprendono il senso del detto popolare “il fine giustifica i mezzi” che si suole attribuire a Niccolò Machiavelli, sebbene esso non si trovi con tale formulazione in nessuno degli scritti dell’autore de Il Principe. Nondimeno il rapporto tra fini e mezzi è questione politica di capitale importanza, e non solo politica: chiunque si prefigga di raggiungere un risultato (il fine) è posto dinanzi alla questione della scelta del modo o della strategia con cui perseguirlo (il mezzo). Se il fine è neutro rispetto a un valore etico, il rapporto stesso tra fini e mezzi smette di essere un problema etico a sua volta. Ma se il fine è un valore – politico, religioso, educativo, ecc. – allora il problema dell’eticità o meno dei mezzi si pone eccome. Non vederlo è indice di ristrettezza mentale o di cecità ideologica. Vorrei ragionarne con un esercizio che prende a modello il più noto trattato di etica del giudaismo rabbinico, ossia i Pirqè Avot ovvero le Massime dei Padri (del giudaismo, appunto), in particolare il capitolo V, nel quale per facilitare l’attività mnemonica alcuni insegnamenti morali sono raggruppati numericamente: a dieci, a sette e a quattro. Ecco un esempio: “Gli esseri umani sono divisi in quattro gruppi (morali), a secondo di chi dice: il mio è mio e il tuo è tuo (il mediocre); il mio è tuo e il tuo è mio (l’ignorante); il mio è tuo e il tuo è tuo (il pio); il mio è mio e il tuo è mio (il malvagio)” (V,16). Di seguito l’esercizio, e invito lettrici e lettori a valutarlo e, se vogliono e possono, a smentirlo. Trarrò gli exempla dalle narrazioni dell’esodo dall’Egitto.
Primo: chi sceglie un fine immorale e lo persegue con mezzi immorali è a sua volta una persona immorale. I criminali professionisti appartengono a questa categoria, minoritaria nella storia, per nostra fortuna, ma sempre esistente a tutti i livelli della società umana. Faraone, sovrano d’Egitto, fa parte di questa categoria (Shemot/Es 1,8-22), come anche Amalek, e tutti i loro epigoni storici… fino al XX secolo: essi intendono schiacciare il popolo ebraico (e ciò che rappresenta) e lo fanno con tutti i mezzi malvagi a loro disposizione. Calunniatori e delatori vengono subito dopo. I maestri di Israele chiamerebbero chi sceglie un fine eticamente cattivo e tenta di realizzarlo con mezzi immorali un rashà, un malvagio e basta.
Secondo: chi adotta un fine deprecabile ma sta attento a usare mezzi eticamente decenti, “argomenti buoni”, nel tentativo di rendere così meno malvagio lo scopo a cui servono. È la posizione più subdola, a volte difficile da cogliere perché ciò che costui mette in campo sono delle ragioni valide, e non è sempre intuitivo dove voglia arrivare. Costui è un mediocre, non necessariamente un cattivo, ma il suo caso è molto pericoloso. L’esempio lo traggo dalla rivolta di Qorach figlio di Itzhar, un levita, che cospirò con Dathan e Aviram per delegittimare Mosè e Aronne e destituirli dal ruolo di guide del popolo ebraico (Bemidbar/Nm 16). Il fine era malvagio, ma lo presentarono ai figli e alle figlie di Israele con argomenti eticamente plausibili: ‘Tutto Isreale è santo, e che? il Signore non è forse con noi tutti? chi sono questi due per elevarsi sopra di noi?’. Classici argomenti populisti, svolti coram populo. Alla fine della rivolta dei tre contro Mosè e Aronne, la terra si aprì e li inghiottì, anche qui con un’emblematica pena del contrappasso: i mediocri, che non sanno distinguere il bene dal male, la terra se li inghiotte.
Terzo: chi adotta un fine morale e buono ma non sta attento a scegliere i mezzi altrettanto morali e buoni, in quanto per costui “il fine giustifica i mezzi”. Si tratta appunto del ragionamento attribuito a Machiavelli, ma che in realtà caratterizza gli zeloti di ogni gruppo umano, di ogni cultura e di ogni religione. Buono lo scopo, cattiva la via per raggiungerlo. Secondo un famoso midrash sull’Esodo, la tribù degli efraimiti aveva un fine buono – uscire dalla schiavitù dell’Egitto – ma scelse i mezzi sbagliati, volle cioè affrontare i nemici con le armi e non aspettò il segnale divino: come e quando partire tutti insieme… e finirono sconfitti. Altro esempio sono Nadav e Abihu, figli di Aronne, che vollero eccedere nel culto e accesero un fuoco non richiesto e il fuoco divino li divorò (Wajqrà/Lv 10,1-2). Ignoranti? Sprovveduti? Ingenui? Anche i fini più elevati non giustificano mezzi sbagliati, ovvero immorali, e i successi così ottenuti si rivelano spesso vittorie di Pirro. Storicamente avviene che i mezzi immorali finiscono per corrompere anche i fini buoni, cui intendono servire. Come afferma un grande rabbino contemporaneo: “Un fine etico non può mai permettere mezzi non-etici”. L’ingenuità può far appello alla buona fede o alle buone intenzioni, ma tutti sappiamo dove portano le buone intenzioni quando siano dissociate dalle giuste azioni. Nel medioevo cristiano, per salvare le anime (un fine ritenuto non solo morale ma divinamente giustificato) spesso si sacrificavano i corpi – le persona! – con torture e roghi. I valori assoluti spesso diventano ideali ciechi… “ciechi che guidano ciechi”.
Quarto: chi sceglie fini morali, ossia valori buoni contemperati e provati da altri fini buoni, e cerca di perseguirli con mezzi eticamente vagliati e provati dalla ragione e dall’esperienza. Costui è equiparabile al chakham, il saggio o il pio della tradizione ebraica; è contraddistinto da umiltà (anche quando si dovesse arrabbiare) e da generosità (non fa mai calcolo del proprio tornaconto, ma solo del bene della comunità); soppesa cause ed effetti; prevede le conseguenze delle proprie parole e soprattutto delle proprie azioni; si sottomette al consiglio di altri saggi consiglieri; è disposto a rivalutare le proprie imprese. Una persona morale cerca fini morali e li persegue con mezzi morali. Chi altri, nella storia dell’uscita dall’Egitto, incarna questa figura se non Moshè rabbenu, Mosè nostro maestro? Ecco perché questa figura non smette mai di ‘insegnare’ e perché la tradizione incoraggia ogni generazione a cercare i propri Mosè, in quanto ogni generazione di ebrei ha i suoi Mosè, basta cercarli.
Quest’esercizio di etica ebraica rimanda all’ammonimento di Devarim/Dt 16,20: tzedeq tzedeq tirdof, che si suol tradurre con: “la giustizia, la giustizia seguirai”. Da sempre i maestri si interrogano sul significato del raddoppio della parola tzedeq, giustizia. Vorrei proporre una variante traduttoria, per così dire, e rendere quel potentissimo precetto rivolto ai shofetim, ai giudici (e ai politici, e a chi ha responsabilità di guida in Israele e nel mondo), interpretando il primo tzedeq come rivolto ai fini, il secondo tzedeq ai mezzi. Il precetto suonerebbe: “Scegli fini giusti e perseguili con mezzi altrettanto giusti ossia morali”.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma