Breve introduzione al nuovo saggio dello storico dei diritti umani e dei genocidi
Di cosa parliamo quando parliamo di genocidio? La domanda non è retorica perché questa parola, di recente acquisizione, lascia aperte molte questioni, oggi di grande attualità. Il tema della sua definizione rileva oggi, insieme all’uso che si fa di questo termine nella considerazione di eventi che hanno punteggiato la storia dell’umanità. Oppure nella loro negazione. Marcello Flores, storico dei diritti umani e dei genocidi, ha appena pubblicato un saggio dal titolo Il genocidio (Il Mulino). Si comincia in ordine cronologico, considerando il momento in cui il neologismo fu coniato dal giurista polacco Raphael Lemkin e quello, di poco successivo, in cui le Nazioni Unite approvarono la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio. Era il 1948 e da allora questo termine così geniale da non richiedere traduzione in altre lingue ha assunto tante sfaccettature. “Quella prima definizione non è né la migliore né la più giusta”, spiega Marcello Flores, “si è trasformata ulteriormente nei tribunali del Rwanda e della guerra nella ex Jugoslavia e nell’opinione pubblica, ora, il genocidio assume il significato di crimine massimo, peggiore di quello che denota il massacro. Questa componente psicosociale complica la definizione di genocidio e la rende importante”. Al punto che ci sono state molte proposte per modificare la definizione stessa di genocidio. Sulla risoluzione 96 del dicembre 1946 che poi porta le Nazioni Unite alla Convenzione si legge:
Genocidio è la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani; questa negazione del diritto all’esistenza sconvolge la coscienza umana, infligge gravi perdite all’umanità che si trova privata dagli apporti culturali o di altra natura di questi gruppi, ed è contraria alla legge morale e allo spirito e agli obiettivi delle Nazioni Unite. Molti esempi di un simile crimine di genocidio hanno avuto luogo quando gruppi razziali, religiosi, politici o di altra natura sono stati distrutti interamente o in parte. La punizione del crimine di genocidio è una questione di interesse internazionale.
Lemkin aveva coniato questo termine dopo un lungo, dettagliato quanto fondamentale lavoro sui campi di sterminio e le leggi messe a punto dai regimi totalitari, cercando di dare un nome a quello che Churchill poco prima aveva definito un crimine senza nome. Si guardava alla Shoah, naturalmente. “Il termine genocidio guarda anche al passato, costellato di crimini contro l’umanità. Ma la consapevolezza di identificare un gruppo per eliminarlo emerge con forza con la Shoah, che mette per la prima volta in chiaro la volontà di distruzione totale di un popolo”, continua Flores. Dunque la Shoah è sia un paradigma, sia un detonatore della consapevolezza di cosa sia un genocidio? “Esattamente. È un paradigma per capire meglio gli altri massacri della storia. Che ne è costellata, ma nessuno prima della Shoah aveva come unica motivazione quella di eliminare un gruppo perché sgradito. Gli altri massacri, terribili e disastrosi, avevano sempre una motivazione bellica e di conquista. Ecco perché fa anche da detonatore: apre le porte a una riconsiderazione storica a partire da una nuova consapevolezza”. Dunque quanto è accaduto alle popolazioni Maya e Inca all’arrivo degli spagnoli non rientra nella categoria genocidio? “No, anche se il risultato è tale. Perché l’intenzione degli spagnoli era conquistare e ridurre in schiavitù la popolazione locale”. L’intenzione. Ecco, possiamo dire che proprio qui sta la differenza ma anche la delicatezza di questo concetto? “L’intenzione è l’elemento decisivo, che determina a quale categoria un crimine appartenga. Per nessun crimine c’è una giustificazione, solo la comprensione di quale intenzione lo ha originato. Così se la parola genocidio viene usata da giudici e giuristi, l’intenzione dell’imputato è determinante perché potrebbe aver compiuto dei massacri, crimini di guerra e crimini contro l’umanità ma non quello di genocidio. Perché non ha compiuto quelle efferate azioni con l’intenzione di chi vuole eliminare dei civili unicamente perché appartengono a un gruppo particolare (religioso, politico…). E questo non è facile da spiegare e raccontare”. Si torna al problema della psicologia sociale che spesso distorce la definizione corretta di genocidio, dando a questa parola un ruolo sovradimensionato, quasi potesse fungere da giustiziere per l’umanità. Ma per fare giustizia occorre chiarezza e soprattutto un intero apparato linguistico, fatto di termini specifici capaci di differenziare le categorie dell’agire umano nella sua dimensione peggiore. Dunque il criminale condannato per crimini contro l’umanità e crimini di guerra ma non per genocidio è una persona che ha compiuto terribili atti contro le persone, ma che non lo ha fatto con l’intenzione sottesa a chi compie un genocidio. Il discorso apre ancora mille altre porte, ma qui diamo spazio all’ultimo aspetto della proposta di Lemkin accolta dalle Nazioni Unite: definire il genocidio perché possa essere punito e prevenuto. Dunque, Lemkin apre lo sguardo sul futuro. “Riuscire a capire quando un gruppo viene messo sotto attacco dalle più piccole discriminazioni che subisce serve a prevenire i genocidi ma richiede un’attenzione molto alta. Oggi andrebbe applicata anche al linguaggio, la cui violenza ha un peso molto forte. Ma anche qui il problema è capire come distinguere le varie forme di violenza linguistica e come punirle. Credo che andrebbe delineata una sorta di mappa, capace di identificare quali sono le tappe di avvicinamento al genocidio”.
Marcello Flores, Il genocidio, pp. 202, 13,30 euro, Il Mulino
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.