Cosa potrebbe cambiare nei rapporti tra stato e rabbinato dopo le elezioni del 17 settembre? Storia e attualità di un’istituzione in crisi
“Il prossimo governo dovrà affrontare le questioni religiose”, titola un articolo del 12 settembre firmato da Yizhar Hess (CEO del movimento conservative in Israele) per il Jerusalem Post. “Una delle questioni più seccanti che deve affrontare ogni cittadino ebreo israeliano dal giorno della nascita a quello della morte è il fatto che lo Stato di Israele ha deciso, fin dal giorno della sua fondazione, di depositare le chiavi dell’identità ebraica del Paese nelle mani di un gruppo, dando a questo gruppo un potere che solo uno Stato sovrano può conferire. E questo errore storico tormenta lo Stato come una maledizione”, scrive. Hess si riferisce al Gran Rabbinato d’Israele, il supremo organo religioso per i cittadini ebrei dello Stato. Come nasce e quali sono le sue funzioni? Perché per alcuni, come Hess, lo status quo del Rabbinato in relazione allo Stato sarebbe “un errore storico”? E quali sono le “questioni religiose” principali che il governo che si formerà dal voto del 17 settembre (ammesso che si formi, poiché dai sondaggi pare molto possibile lo scenario di un nuovo stallo) dovrà affrontare? Vediamo qui una breve rassegna, partendo dalle origini fino all’attualità.
Nascita e ratio del Gran Rabbinato Israeliano
Il moderno Gran Rabbinato d’Israele venne istituito ufficialmente dalle autorità del Mandato Britannico nel 1921, con la nomina di Jacob Meir come Rabbino Capo Sefardita e di Abraham Isaac Kook come Rabbino Capo Ashkenazita. Si trattò in verità del riconoscimento di un istituto giuridico già previsto nell’Impero Ottomano, il cosiddetto sistema dei millet (“corti”), in base al quale lo status di ognuno si basava sulla comunità etnico-religiosa di appartenenza, organizzata intorno a un capo investito delle sue funzioni dal sultano, al quale venivano conferiti poteri di rappresentanza (della comunità verso l’esterno) e di gestione delle questioni interne al gruppo (amministrazione e interpretazione della giustizia e del diritto di famiglia, riscossione dei tributi, ecc.). Il rabbino investito del ruolo di autorità suprema per gli ebrei della Palestina ottomana era conosciuto come Rishon LeZion (“Il primo di Sion”), un titolo che ancora oggi in Israele è attribuito al Rabbino Capo Sefardita.
Con la fine del Mandato e la fondazione dello Stato d’Israele, e con il confronto – o più spesso il conflitto – tra visione laica o religiosa che già caratterizzava il dibattito ideologico-politico, si pose la questione di cosa fare del Rabbinato. David Ben Gurion, da abile mediatore, riuscì a stabilire un’intesa tra la realtà dell’yishuv, espressione del movimento sionista laico, e il movimento ortodosso di Agudat Yisrael, che si opponeva alla creazione di uno Stato completamente secolarizzato. A partire da quattro punti fondamentali (Shabbat, kasherut, diritto di famiglia e istruzione scolastica), vennero così poste le basi di quel peculiare status quo di “Stato ebraico e democratico” che caratterizza Israele: il sabato è il giorno festivo nazionale (chiusura degli uffici pubblici, delle scuole, sospensione dei trasporti pubblici, ecc) ma nel privato la sua osservanza è lasciata alla scelta libera (un privato è libero di guidare la propria auto o tenere aperto il proprio negozio); negli uffici e nelle istituzioni statali, come scuole, università, ospedali, ecc. i pasti sono a norma di kasherut, ma ognuno è libero di mangiare come preferisce a casa sua; il matrimonio civile non è contemplato, ma è possibile ottenere il riconoscimento di quello celebrato all’estero; il Rabbinato stabilisce chi è ebreo secondo i criteri della Halakhà, ma lo Stato stabilisce chi ha diritto alla cittadinanza secondo i criteri della Legge del Ritorno. Rabbi Eli Fischer, studioso, editore e traduttore, ordinato proprio dal Gran Rabbinato, scrive su Moment Mag: “La continuazione del sistema ottomano voluta da Ben Gurion fu un elemento chiave del suo stile unico di costruzione dello Stato, che cercò di creare un’identità ebraica israeliana dalle etnicamente e religiosamente diverse identità ebraiche della Diaspora”.
Un atto di mediazione quindi, di compromesso tra visioni che, se non accolte nella loro legittimità e specificità rischiavano di generare un conflitto insanabile, proprio in un momento di grande fragilità e ostilità esterne.
Problematicità dello status quo: le critiche al Rabbinato
Da allora fino a oggi, Israele si caratterizza per il suo pluralismo giuridico: la legge israeliana regola i rapporti tra Stato e cittadini, ma su diversi aspetti della vita privata e familiare legifera il tribunale della comunità religiosa d’appartenenza. Accanto ai tribunali rabbinici (Batei Din), il governo quindi riconosce anche quelli della comunità musulmana, della comunità drusa e di dieci confessioni cristiane. I cittadini ebrei sono così sottoposti alla giurisdizione dei tribunali rabbinici, che fanno capo al Gran Rabbinato, nelle questioni che concernono il matrimonio, le conversioni, il divorzio, la sepoltura dei defunti. Lo status quo va bene così? Molti dicono di no, accusando diverse problematicità: il monopolio del Rabbinato sulla vita ebraica dei cittadini israeliani (manca un quadro di riconoscimento legale delle denominazioni non ortodosse) pone degli ostacoli allo sviluppo di un pieno pluralismo e in ultimo alle libertà individuali. Grande scalpore aveva fatto, per esempio, l’arresto di un rabbino conservative su denuncia del tribunale rabbinico di Haifa nel luglio 2018 per aver officiato dei matrimoni al di fuori del Rabbinato.
Il monopolio del Rabbinato Israeliano ha inoltre ripercussioni sull’ebraismo della diaspora: molti ricorderanno – esempio apparentemente futile, eppure significativo – la controversia dello scorso anno sui carciofi alla giudìa, piatto-simbolo della tradizione gastronomica ebraico-romanesca, con il blocco del Rabbinato all’importazione in Israele (sulla base del fatto che il fiore, fritto intero, potrebbe celare insetti e quindi non essere kasher) e le diverse reazioni delle comunità di Roma e Milano (per una ricostruzione dettagliata, Davide Lerner su Haaretz o la sintesi in italiano su Il Post).
Un’altra questione rilevante è quella delle accuse di abuso di potere sulla facoltà di determinare chi è ebreo: si va dalla recente notizia – analizzata da Shuki Friedan su The Israel Democracy Institute – dell’accettazione di test del DNA come prova dell’ebraicità degli aspiranti olim (nuovi cittadini), al contrasto tra Halakhà e Legge del Ritorno che lascia numerosi interrogativi aperti sulla demografia del prossimo futuro, fino alle conversioni. A novembre 2018, come riporta Ben Sales su Jewish Telegraphic Agency, a seguito di forti pressioni e richieste di maggiore trasparenza, il Rabbinato ha pubblicato la lista dei Batei Din della diaspora di cui riconosce i ghiurim. Un passo avanti, ma la ragione di molte esclusioni non è stata completamente chiarita. I tribunali riconosciuti sono in tutto 69 e la lista è consultabile qui: se guardiamo all’esempio italiano, ne troviamo inseriti solo tre, due a Milano e uno a Roma. Perché gli altri – seppur ortodossi – sono fuori dalla lista? È stata la domanda posta dal Rabbino Capo di Venezia Scialom Bahbout – articolo di Marissa Newman su The Times of Israel – che a maggio 2018 ha incontrato personalmente le autorità del Rabbinato in Israele per protestare contro questa esclusione.
Ulteriore problematica è quella delle accuse di corruzione in cui il Rabbinato diverse volte si è trovato coinvolto, con conseguenze gravi sulla sua credibilità e moralità: una delle ultime notizie in merito – qui la ricostruzione su The Times of Israel – riguarda il processo a Rabbi Yitzchak Arazi, ex capo del settore responsabile della supervisione halakhica dei cibi provenienti dall’estero. L’accusa è di avere accettato denaro e regali in cambio del rilascio della certificazione di kasherut.
La sfida del prossimo governo: riconoscere la “rivoluzione silenziosa”
Tutti gli esempi sopra evidenziano un quadro complesso e delineano una certezza: c’è bisogno di cambiamento. Non si tratta, come vorrebbe la minoranza dei laici più risoluti, di abolire il Gran Rabbinato: bensì di riformarlo per restituirgli trasparenza e credibilità, rendere la burocrazia meno soffocante e insormontabile, creare delle alternative. Un’esigenza che da molto tempo è condivisa non solo dal mondo conservative e reform, ma anche da una parte dell’ortodossia: ne è un esempio l’organizzazione no profit Itim, fondata dal rabbino modern orthodox Seth Farber nei primi anni Duemila con lo scopo di rendere le istituzioni religiose più inclusive.
La pentola sobbolle, diversi cambiamenti sono già per via: un sondaggio dell’Israel Democracy Institute ha mostrato che la metà degli israeliani sarebbe favorevole a una semplificazione delle procedure di conversione; quest’estate l’IDF ha detto sì, per la prima volta, alla celebrazione di funerali militari non ortodossi; Rabbi Gilad Kariv, presidente del movimento reform in Israele, potrebbe riuscire a farsi eleggere alla Knesset. Il nuovo governo, più che inventare dal nulla, dovrà trovare il modo – nel rispetto delle esigenze di tutti- di dare riconoscimento a un pluralismo già esistente nella società. Una sfida trasversale, perché dovrà rispondere alle esigenze di un elettorato composito (una componente non sempre facile da tenere a mente per la nostra prospettiva che tende ad associare automaticamente le categorie “laico” e “di sinistra”).
Il riconoscimento giuridico di una rivoluzione silenziosa, come riassume – prendendo ad esempio il matrimonio – Yizhar Hess nell’editoriale citato all’inizio: “Sul matrimonio e sul divorzio, è semplicemente doveroso riconoscere legalmente la rivoluzione silenziosa che sta già avvenendo. Con oltre il 20% di coppie ebree che oggi scelgono di sposarsi con una cerimonia che non coinvolge il Gran Rabbinato, appare evidente che il dado è tratto. I politici lo sanno. Kachol Lavan [il partito di Benny Gantz] ha proposto di creare una via alternativa al Rabbinato, mentre Yisrael Beitenu [il partito di Avigdor Lieberman] si è detto a favore dell’istituzione del matrimonio civile. Formare un governo che non implementa questi cambiamenti sarebbe una violazione spudorata delle promesse fatte agli elettori”.