La recensione del libro vincitore del Chicago Review of Book Award for Fiction e ora pubblicato da Giuntina
Un libro-mondo quello di Michael Zapata che Giuntina pubblica nella traduzione di Viola Di Grado con il titolo Il libro perduto di Adana Moreau. Un libro in cui il lettore è costretto a tuffarsi per non perdere il battito cardiaco dei suoi personaggi. Una famiglia composta da un padre contrabbandiere che si definisce l’ultimo pirata del nuovo mondo, una madre in fuga dalla Repubblica Dominicana (dove è rimasta orfana di genitori combattenti contro l’invasione americana), e il loro figlio, nato per percorrere le terre e non i mari, è il nucleo originario, ospitato a New Orleans nei primi anni del secolo scorso. Da qui si dipana la storia, incentrata su Adana, la madre, che scopre i libri e il piacere della lettura da adulta, fino a trasformarsi in scrittrice, per portarci, però, in un territorio che con il tempo storico ha ben poco a che fare. Oppure tantissimo. Perché si procede per salti temporali, lungo il tempo interiore, mai lineare, che ne accompagna il trascorrere. Poi ci sono le date e i tentativi di tenere una cronologia. Ci sono il «prima» e il «dopo», quasi come in un romanzo di formazione, e c’è un continuo ricamare una spirale di tempo che non procede mai in una sola direzione.
Siamo nel 1920, ma anche nel 2005. Siamo a New Orleans, ma anche a Chicago, siamo nelle dittature del Cile di Pinochet e dell’Argentina di Videla, ma anche a Pietrogrado e a Vitebsk, da abbandonare per salvarsi dalle persecuzioni. La Shoah entra in questa storia, insieme ad altri crimini contro l’Umanità, narrati da chi ha scelto l’esilio, in una babele di storie, di tradizioni, di lingue, di libertà negate e ritrovate. Ma tutto, con grande delicatezza.
Siamo in un’epoca vicina e in una incredibilmente lontana. E niente è slegato dal resto. Sia nella trama, ben controllata dallo scrittore, sia nella vita dei personaggi che si inseguono per generazioni intorno alle vicende (editoriali e non) di Adana Moreau. Dopo aver pubblicato il suo primo libro dal titolo Città perduta, la donna ne scrive un secondo che non darà mai alle stampe e che deciderà di bruciare prima di morire prematuramente per malattia. Ma una versione di quel volume, dal titolo Una Terra modello, esiste ed è destinata a raggiungere il figlio Maxwell Moreau, in un tempo molto lontano dalla sua creazione, quando ormai è un ex professore di fisica dalle teorie anticonformiste e geniali. Che sembrano fare eco a quelle di Adana, donna magica che scrive di terre in universi paralleli nel suo ultimo scritto.
Fantascienza. Fantascienza poetica, in cui è il quotidiano a trasformare la percezione del mondo e dove sono le relazioni affettive a creare – forse – l’universo. Dove le parole sono dettate dallo sguardo, come se potessero venire pronunciate dagli occhi: chi parla trasmette la propria visione del mondo, filtrata com’è dalla propria peculiare esperienza e dal proprio personale modo di pensare. E l’esperienza, a sua volta, è possibile se si segue la propria strada. Sembra questo il cuore di un libro che cattura, complessivamente, il lettore in un viaggio nell’esilio, nella diaspora e nei legami affettivi. Ci si immerge in una New Orleans distrutta dall’uragano Katrina e in quella magica e dolce di un’epoca lontana, in uno yiddish mai abbandonato che riaffiora nei modi di dire, nella vita ebraica a Chicago e nell’amicizia di due ragazzi che si ritrovano adulti senza aver mai tradito se stessi. Il libro, anzi i libri fanno da filo rosso in tutta la vicenda, attraverso alcuni portatori fondamentali, che sanno trasmettere l’amore per la lettura e attivare scambi tra gli uomini. E questo romanzo è il tentativo veramente titanico di scandagliare i mondi possibili attraverso la vita di personaggi e generazioni diverse, ma sempre in comunicazione tra loro. Con coerenza e maestria.
Il libro perduto di Adana Moreau è un romanzo totale, se si può mutuare dalla musica questa espressione: ha tanti strati sonori, un’infinità di colori e una profondità sufficiente da creare un sound avvolgente e mai banale. Docente di scrittura al Master of Arts in Writing della Northwestern University e allo StoryStudio di Chicago, Zapata ha vinto il Chicago Review of Book Award for Fiction nel 2020 e in effetti il suo è, come lo ha definito la critica, “un esordio esplosivo, scintillante” che, magari con qualche piccola caduta, invita il lettore a mettersi in gioco. A giocare con i personaggi di mondi lontani rintracciando i propri, in uno sconfinato territorio che contiene il prima, il dopo e l’adesso.