L’eredità silenziosa di “Giudici – 19” e le sue diverse interpretazioni
Di tutti i libri che compongono la Bibbia ebraica, Giudici – il secondo dei libri storici, nella raccolta dei Neviim, Profeti – è probabilmente uno dei più ricchi e provocatori a livello narrativo. Il testo racconta le vicissitudini delle tribù israelite nell’epoca in cui erano sottoposte alla guida occasionale di capi carismatici – come Debora, Gedeone e Sansone – detti shofetim, i “giudici” per l’appunto. Nell’esporre questo periodo di transizione politica, Giudici evoca a più riprese episodi di violenza che potremmo quasi definire “horror” o, ancora meglio, “pulp”. Un caso clamoroso – e, vedremo, problematico per il contenuto altamente disturbante – è la vicenda della concubina del levita, trasmessa al capitolo 19, nella sezione finale del libro.
La narrazione si apre presentando il protagonista, un certo levita – di cui il testo non fa nome – che risiede nei territori montani appartenenti alla tribù di Efraim. Il levita prende con sé una concubina originaria di Betlemme, in Giudea, che però lo abbandona tornando a casa del proprio padre. Il marito la segue per convincerla con le buone a tornare indietro e raggiunge la casa del suocero, dove si ferma per tre giorni, accolto con i sacri crismi dell’ospitalità. Per ben tre volte, tuttavia, il levita cerca di ripartire alla volta di casa con la concubina recuperata e per ben tre volte il padre della donna lo persuade a fermarsi una notte in più. Fino a che, il quinto giorno, l’uomo si mette finalmente in viaggio. Sopraggiunta la notte, il gruppo composto da levita, concubina, un servitore e due asini si trova ancora per via, nei pressi di Gabaa, in territorio dei Biniaminiti. Qui trovano ospitalità presso un anziano signore che mette loro a disposizione la propria casa. Ben presto, però, gli empi concittadini bussano alla porta chiedendo all’uomo di consegnare loro l’ospite per abusarne. Il vecchio offre loro la propria figlia vergine ma questi rifiutano. Il levita prende allora la concubina e la lascia in balia della folla, che la violenta ripetutamente nel corso di una lunga notte. Sul fare dell’alba la donna viene liberata: più morta che viva, si trascina fino all’abitazione dell’ospite e si accascia sulla soglia. Il levita la carica dunque a dorso d’asino e torna a casa. Lì decide di smembrare il corpo esangue della concubina in dodici pezzi da inviare alle dodici tribù come memento dell’abissale depravazione che alberga in seno agli israeliti.
L’orrore suscitato dal racconto, che non si limita allo stupro ma persevera nell’omicidio e nella macabra profanazione di cadavere, è per la verità funzionale a una “morale” della storia. L’episodio sarà infatti la scintilla che farà scattare la guerra civile, la cui risoluzione si materializzerà nell’instaurazione di una monarchia in Israele. Il testo si apre infatti con una contestualizzazione che ritorna spesso in Giudici: “In quei giorni non c’era re in Israele” (v. 1). Il climax di atrocità, dunque, si inserisce in una trama storiografica finemente tessuta nel testo: non a caso, è forte il richiamo ad altri passaggi letterari della Bibbia, primi fra tutti la fuga di Agar, concubina di Abramo, e il crimine di Sodoma. Come Agar, anche la concubina del levita si allontana dalla famiglia a cui è associata. Come i Sodomiti, anche gli abitanti di Gabaa infrangono le leggi dell’ospitalità per usare violenza su chi dovrebbero invece accogliere.
Ma, al di là della perizia retorica con cui è costruito, il testo di Giudici 19 non manca, prevedibilmente, di problemi filologici. L’incognita principale si trova già all’inizio del racconto: qual è il motivo per cui la concubina si sarebbe allontanata dalla casa del levita? Il testo masoretico – ovvero la versione del testo ebraico come editata con l’aggiunta delle vocali tra il VII e il X secolo dell’era volgare – recita come segue: “E la concubina si comportò da sgualdrina a suo discapito (וַתִּזְנֶה עָלָיו פִּילַגְשׁוֹ) e se ne andò da lui verso la casa del proprio padre”. A quanto pare, a monte della separazione vi sarebbe un adulterio da parte della donna. La questione, però, non è così semplice. Se si prendono in considerazione le traduzioni in altre lingue della Bibbia, come la versione greca dei Settanta – composta tra il II secolo a.C. e il primo d.C, quindi prima della sistematizzazione masoretica in ebraico – si troverà una discordanza in questo punto. Il testo greco dei Settanta riporta infatti il dettato seguente: “E la concubina si infuriò con lui (καὶ ὠργίσθη αὐτῷ ἡ παλλακὴ αὐτοῦ) e si allontanò da lui verso la casa di suo padre”. Qui non vi sono cenni a un eventuale tradimento da parte della concubina, mentre il riferimento è piuttosto a un qualche dissapore matrimoniale. La versione greca, in effetti, è da preferire e la ragione è filologica: tra le varianti “wat-tizneh” ebraico (“si comportò da sgualdrina, commise adulterio”) e “ōrgísthē” greco (“si infuriò”) è la seconda ad essere originaria. L’ebraico, difatti, si spiega con un errore di trascrizione: se si sostituisce l’ultima lettera, una heh (ה), con una quasi omografa chet (ח) si otterrà il verbo ותזנח, “wat-tiznach”, dal significato di “respingere”, molto più vicino al greco “ōrgísthē”, “si infuriò”. La macchia dell’adulterio avrebbe potuto colpevolizzare la protagonista femminile attraverso un ragionamento – che ancora oggi infesta la mentalità collettiva – di “victim-shaming”, ossia del pregiudizio per cui “se l’è cercata”. Il testo biblico, tuttavia, non supporta questa sfumatura interpretativa e, letterariamente parlando, tende piuttosto all’empatia con quella che è la vittima innocente di un crimine brutale.
La crudezza del brano si può leggere anche a livello metaforico. Anzitutto, il passaggio sembra sottolineare ripetutamente un aspetto assai materiale del concetto di ospitalità, attorno cui ruota l’intero nucleo etico della narrazione: il cibo. A casa del padre della concubina prima e a casa del vecchio di Gabaa dopo, l’entourage del levita mangia e beve – il testo assicura – a volontà. Un banchettare reso possibile dalla buona disposizione degli ospitanti che si trasforma in cannibalismo metaforico quando a essere data in pasto agli stupratori è una degli ospitati. Nella tradizione ebraica successiva, l’equazione mangiare = conoscere carnalmente – e, dunque, donna = pietanza da gustare – diverrà un tema ricorrente ed esplicito. La donna è preda degli appetiti, oggetto dell’incapacità maschile di gestire le proprie brame, siano esse di sesso o di potere. Quando si parla della donna, dunque, si parla del suo corpo. E il corpo femminile è un corpo politico: in Giudici 19, lo smembramento in dodici pezzi non è che simbolo del disgregamento sociale di Israele in epoca pre-monarchica.
Questo brano dalla lettura complessa lascerà una sorta di vuoto interpretativo dietro di sé nel millennio successivo alla compilazione del canone biblico, tanto che, sia nella letteratura ebraica rabbinica che in quella cristiana patristica, i cenni e le esegesi alla storia della concubina del levita saranno assai radi. Nel Talmud, ad esempio, troviamo solo due riferimenti: uno nel trattato Megillah (25b), sulla liceità della lettura liturgica di questo brano, percepito già allora come problematico, e uno in Gittin (6b), sulle ragioni della fuga della donna (che includeranno una mosca e un pelo pubico su un piatto). Anche lo storico Giuseppe Flavio (ca. 37-100 e.v.) si occuperà della vicenda, riscrivendola – con diverse varianti rispetto al testo biblico – nelle Antichità giudaiche (5.136-150a). Molti secoli più tardi, Giudici 19 ispirerà anche il poema in prosa Le Lévite d’Éphraïm di Jean-Jacques Rousseau (1762). Negli ultimi decenni, la critica biblica femminista ha dedicato crescente attenzione alla storia della concubina del levita, leggendola di volta in volta come una testimonianza misogina del regime patriarcale dell’antico Israele o come un’esperienza non riuscita di emancipazione femminile. In ogni caso, il capitolo 19 del libro dei Giudici non può che suscitare una risposta emotiva, ideologica, intellettuale forte nel lettore di oggi, uso alle malaugurate cronache di stupri di gruppo e femminicidi. Un testo inaspettatamente moderno, sempre attuale, da riscattare dai silenzi della memoria letteraria.
Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.