La recensione
Leggere questo libro richiede una certa calma e un’inclinazione alla letteratura scientifica per immergersi tra le pieghe della botanica. Ma leggere questo libro significa anche immergersi nella vita del suo autore, che firma un’autobiografia decisamente particolare. Perché Meir Shalev questa volta racconta di sé in prima persona e di quelle creature che popolano il suo mondo: le piante, i fiori selvatici, quelli coltivati e tutti gli animali che vivono nel giardino che circonda la sua abitazione. Sono loro, insieme allo scrittore, i protagonisti di questa storia che inizia con una fotografia. Anzi un intero servizio fotografico che due sposi, con tanto di mamme al seguito e troup (per video, foto e trucco), si stanno facendo scattare proprio nel giardino in questione. “C’erano un cameraman, Yossi, e un fotografo, Facey, un tecnico del suono, una truccatrice, due donne più in là con gli anni, una grossa e una piccola, evidentemente le due suocere, tutti giù a pestare brutalmente i papaveri e i lupini e i cardi azzurri che coltivo nel mio giardino”, si legge nelle prime pagine. Avevano scelto quel prato fiorito per la sua bellezza (anche se sono un po’ brutali nell’esprimerla e rispondono malamente al proprietario ritenendolo uno spazio incolto). Il complimento piace al giardiniere, costretto però a salvare i suoi fiori e ad allontanare gli sposini.
Ma è l’amore comunque, a guidare questa favola vera, a cominciare dalla scelta di quella casetta, piccolina, modesta, ma interamente circondata da un giardino, nella valle di Jazreel, nel momento in cui Shalev sceglie di non vivere più in città. E qui comincia l’avventura, in un dialogo costante e poetico tra la natura selvatica e l’uomo, tra le specie che immette nel giardino e quelle autoctone, in una coltivazione che è prima di tutto cura. Inesperto, timido e timoroso di recare danno a quella vegetazione spontanea che era cresciuta nel giardino di casa, Shalev a poco a poco prende coraggio. Toglie rovi e arbusti, spunta il prato, bagna le piante da frutto e, grazie al consiglio (o meglio, all’ordine perentorio) di un amico, taglia tutti i rami morti del limone fino al primo inverno, quando cominciano a germogliare le erbe matte, il finocchietto, il pruno sevatico, la malva… e poi la fioritura primaverile: una meraviglia. L’inizio di una meraviglia: da allora ha aggiunto moltissime piante, in parte con la semente in parte con le piantine: “Forse ho cominciato troppo tardi”, scrive Shalev, “forse sono troppo occupato a fare altre cose. Perciò questo non è un libro di botanica né di giardinaggio. È soltanto una raccolta di impressioni su un giardino senza pretese e su un giardiniere che se ne occupa perché a un’età piuttosto avanzata si è inventato un passatempo, fors’anche un nuovo amore”.
Ne Il mio giardino selvatico la lettura procede per racconti dedicati a singole specie. Si parla del corbezzolo, per esempio, che può vivere solo se sulle sue radici ospita un particolare fungo. E Shalev va a cercare la terra in un bosco pieno di corbezzoli sperando che contenga le spore per farlo proliferare su quello del suo giardino: funziona! “Che bella cosa”, commenta, “Di solito è il parassita ad approfittare della situazione, mentre in questo caso i due si aiutano a vicenda al punto che non possono vivere separati. (…) Nel giro di qualche settimana l’albero malato si è ripreso ed è guarito”. Ci sono anche gli animali, più o meno graditi, ad interessare il neogiardiniere che da bambino signava di diventare zoologo, come il ratto talpa, sterminatore di bulbi e fiori, verso cui Shalev non ha alcuna pietà: “Di solito sono una persona pacifica che detesta la guerra, ma non sono pacifista a priori e non credo nella regola del porgere l’altra guancia. Ci sono casi e situazioni in cui uno deve reagire con la guerra, perfino dichiarandola per primo (…) Nel caso specifico in cui l’aggressore sia un ratto talpa, poi, si tratta letteralmente di una guerra tra i figli della luce e i figli delle tenebre“.
A raccontare la natura si usano, ovviamente le parole. Ma le parole non sono mai neutre, esprimono un pensiero, n punto di vista. La casa di Shalev offre uno sguardo sul Carmelo, che cambia colore e definizione a seconda della luce nelle diverse ore del giorno. “Il punto più prominente del massiccio del Carmelo è la cosiddetta Mukhraqah. Non è la cima più alta, ma tale sembra da casa mia. Prende il nome dal monastero carmelitano Dir el-Mukhraqah, lì nei pressi, ma ha anche un nome ebraico ufficiale, cioè Keren Carmel. Glielo ha imposto lo Stato d’Israele ma la gente non lo usa. Perché? Perché la guerra di sopravvivenza delle parole è molto simile a quella degli animali e delle piante: solo i più adatti sopravvivono, gli altri si estinguono“, si legge. E poi prosegue con la spiegazione: “Il toponimo arabo Mukhraqah perpetua la tradizione ebraica collegata a quella cima, mentre quello ebraico sionista, Keren Carmel, la ignora. Mukhraqah infatti significa luogo del rogo, ed è stato dato a questo luogo per via della storia biblica sul profeta Elia, che stando alla tradizione proprio qui aveva fatto a gara con i profeti di Baal, riuscendo dove loro avevano fallito: far scendere dal cielo un fuoco che bruciasse la legna e le vittime sacrificali disposte sull’altare costruito apposta per la competizione. Quel rogo dimostrava che Dio e non Baal era il nostro Signore“. LAastoria prosegue non senza ironia, nella fattispecie in un confronto tra Baal e il Dio ebraico che sostiene di saper fare ogni cosa, a proposito di acqua: Baal fa piovere, mentre il “primo cimento del Signore come nostro fornitore d’acqua è quando (…) la fa scaturire dalla roccia, piuttosto che farla scendere dal cielo. Secondo il mio modesto parere, è un indizio per tutti i credenti che, con tutto il rispetto per Lui, in fatto di produzione idrica non abbiammo di fronte uno specialista del calibro degli dei del vicinato”. La storia di Elia però è a favore del Signore: “Elia e il Signore portarono a casa una vittoria clamorosa: al fuoco seguirono enormi piogge”, ma le parole, come dicevamo, raccontano storie più profonde, talvolta verità poco evidenti: “Le piante che coltivo qui si definiscono ghidule Baal – cioè “aridocultura” – e non ghidule Elohim, perché proprio così la lingua ebraica chiama le piante che non vanno irrigate e si accontenantano dell’acqua piovana. In altre parole, l’ebraico ha deciso che alla fin fine è stato Baal a vincere: riconosce infatti lui e non il Dio d’Israele quale fornitore di pioggia. Che buffo, però: l’ebraico ha preservato la fede nel dio Baal, l’arabo ha preservato il trionfo del Dio d’Israele e lo Stato d’Israele ha imposto alla Mukhraqah un nome che mette nel dimenticatoio tutta la storia: Keren Karmel”.
C’è molto in questo libro, confessioni personali di uno scrittore, saggi sulla sua tecnica di scrittura e soprattutto su quella della coltivazione in un continuo confronto con le proprie radici. Radicarsi come una pianta, essere curati o sbrigarsela da sé. Prendersi cura, meglio se a piedi nudi, di un giardino, di una natura, forse di una filosofia. Quella che sta facendo il giro del mondo tra paesaggisti e giardineiri: fare spazio al selvatico, soprattutto negli spazi urbani. Secondo i loro studi avrebbe enormi vantaggi, economici, naturalistici e relazionali. Una filosofia, poi, che analizza le parole come specie da coltivare, pronte a garantire la loro funzione più intima e una filosofia, naturalmente, della lentezza. Alla pazienza, infatti, è dedicato un intero capitolo…
Meir Shalev, Il mio giardino selvatico, traduzione di Elena Loewenthal, Bompiani, 20 euro. In libreria dal 18 marzo