Per dirlo con il regista Leon Prudovsky, si tratta di “Una parabola che percorre il sottile confine tra dolore e ridicolo, realismo e assurdo, delicatezza acuta e sfrontatezza grottesca”. La recensione
C’è una scena, ne Il mio vicino Adolf, in cui il protagonista, Marek Polsky, si sta recando all’ufficio del Mossad di un fantomatico villaggio rurale della Colombia. Corre l’anno 1960, Adolf Heichmann è appena stato catturato in Argentina e l’uomo, ebreo originario della Polonia e unico sopravvissuto della sua famiglia, cammina tra la gente solo e spaesato. Prima ancora della vicenda che dà il titolo al lungometraggio del regista russo israeliano Leon Prudovsky, è questo senso di alienazione, di assurda e insopportabile solitudine a dare la cifra dell’intera narrazione. Caratterizzato da una fotografia che ha i colori sbiaditi delle cartoline bruciate dal sole, questo film viene inserito nella categoria della commedia drammatica e in effetti è difficile definirlo diversamente.
La storia, a volerla riassumere in poche righe, è quella di un uomo ormai anziano, scorbutico e solitario, che vive ritirato in una vecchia casa mezza in rovina lontana dal centro abitato. Quello che ha vissuto non viene mai raccontato, non serve. Bastano le prime scene in cui si vede la sua famiglia nel 1934, con i genitori, i figli e la moglie allegramente riuniti in giardino, chi a ironizzare sul Talmud, chi a scattare fotografie, chi a concimare le rose con i gusci d’uovo e chi a giocare a scacchi. Di tutto questo è rimasto ben poco, una foto di gruppo incorniciata, una scacchiera e un cespuglio di quelle stesse preziose rose color carbone che la moglie di Polsky coltivava con tanto amore. L’uomo non ha ormai nessuno con cui giocare e il suo unico interesse è la sopravvivenza dei suoi fiori. Fino a quando una signora dal forte accento tedesco, Frau Kaltenbrunner (interpretata da Olivia Silhavy), viene a chiedergli informazioni sulla casa confinante con la sua, da tempo disabitata e considerata perfetta per un suo misterioso cliente. Nonostante le resistenze di Marek, presto dei nerboruti ragazzoni biondi metteranno in sesto la proprietà e questa sarà occupata da un personaggio dalla folta barba (finta?) e i perenni occhialoni scuri.
Le prime scaramucce tra vicini di casa sono state giudicate negativamente dalla critica internazionale, da Variety al Guardian, ma servono ad alleggerire quello che arriverà in seguito. Dopo averne scorto lo sguardo, Polsky si convince che il sedicente signor Herzog che vive accanto a lui sia niente meno che Adolf Hitler, da lui incrociato tanti anni prima a Berlino in occasione di un torneo di scacchi. Da qui in poi buona parte del racconto segue l’uomo nel suo tentativo di raccogliere prove sulla reale identità del confinante. Nella scena ricordata in apertura, sta andando appunto dai servizi segreti israeliani a denunciare la sua scoperta. Nessuno gli crederà, i funzionari che incontra non solo non conoscono l’yiddish, ma sembrano proprio parlare un’altra lingua. Piuttosto infastiditi, dirottano il poveraccio agli incontri del mercoledì rivolti ai sopravvissuti. A quelli che non hanno ancora saputo superare il trauma, insomma, e che vedono ancora fantasmi in ogni tedesco che incrociano.
Al di là dell’assurdità della presunta scoperta, lo spettatore non può invece che fare il tifo per Marek. Si sorride amaro, guardando l’uomo appostato con il treppiede alla finestra mentre cerca di fotografare il vicino o mentre tappezza una parete con documenti e ritagli di libri e giornali, pronto a confrontare le caratteristiche del nuovo arrivato con quelle di Hitler. L’ansia di smascherare il presunto führer lo porterà a superare, fisicamente e metaforicamente, lo steccato che divide le due proprietà e ad avvicinarsi al nemico. Da qui in poi il film prende una china pericolosa, che non tutti hanno appezzato. Non mancano le gag spassose, e ci si chiede se sia lecito ridere su certi temi, così come quelle commoventi, anche se non sempre il cuore batte solo per il buono. E anche qui la coscienza si fa qualche domanda. Sospendendo il nostro personalissimo giudizio, lasciamo la parola al regista che ha così spiegato le sue scelte: «Ho provato a raccontare una parabola chassidica con l’umorismo ironico, tragico e non convenzionale che caratterizzava il mondo ebraico prima dell’Olocausto. Una parabola che percorre il sottile confine tra dolore e ridicolo, realismo e assurdo, delicatezza acuta e sfrontatezza grottesca».
A dare volto ed emozione a tanta complessità ci pensano i bravissimi attori che interpretano i due protagonisti, il britannico David Hayman per Polsky e il tedesco Udo Kier per Herzog. Capaci di reggere i primi piani quanto e meglio dei fiumi di vodka che i loro personaggi si ritrovano a tracannare, i due mettono in scena un balletto di sentimenti che neppure la barba finta del presunto Adolf riesce a mascherare. Potrà non piacere scoprirsi inteneriti dal tè con biscottini ai semi di papavero che i due si dividono mentre giocano a scacchi o ai pickle, i cetrioli in salamoia, che Marek offre al vicino al termine di una serata imprevedibilmente alcolica. Dall’amore per gli animali, e per il proprio cane lupo in particolare, a quello, non corrisposto, per la pittura, dall’insofferenza per il fumo all’essere mancino, gli indizi che Polsky raccoglie sul suo vicino riesumano una visione del dittatore nazista che avremmo forse preferito dimenticare. Ma sarà soprattutto il finale, e la non troppo celata morale della parabola evocata dal regista, a lasciare molte domande senza risposta. Di nuovo protagoniste, le emozioni contradditorie messe in campo fanno di questo film un’opera che costringe a riflettere. E che, per quanto minore e senza le ambizioni dei grandi lavori sull’Olocausto, offre il suo indubbio contributo nell’affrontare, a modo suo, il tema della memoria.