“Nelle mie immagini in bianco, nero, e in tutte le loro ombre e sfumature, il nero rappresenta il dolore della vita e il bianco la sua catarsi, attraverso l’arte”
Black life, white art con questo titolo enigmatico quanto evocativo, lo scorso martedì 28 febbraio è stata inaugurata presso il Museo Eretz Israel di Tel Aviv la mostra fotografica di Raed Bawayah, il primo fotografo palestinese a cui viene dedicata un’intera retrospettiva presso un museo israeliano. La mostra, curata da Guy Raz, riflette la sofferenza del popolo palestinese, pur mostrandone vita e vitalità. Come spiega lo stesso artista, la scelta del titolo riflette la sua scelta, fin da ragazzo, di diventare un fotografo, per “trovare la luce anche nel buio dei momenti più difficili. E, come palestinese, per ridare vita al mio popolo, nonostante la costante atmosfera di morte e di sofferenza”. Anche per questo, la scelta estetica di stampare in bianco nero e in formato quadrato “per mettere al centro dell’immagine l’essere umano in quanto tale, non solo in quanto palestinese”.
Nella retrospettiva, infatti, compaiono non solo immagini scattate tra Israele e i Territori palestinesi, ma anche foto scattate nel corso della lunga carriera dell’artista all’estero, culminata con la scelta di vivere a Parigi, dove tutt’ora vive e lavora. Nell’esposizione, dunque, viene proposto anche il percorso di vita dello stesso artista: dal Medio Oriente all’Europa, con numerosi ritratti di diversi soggetti in cui il fotografo si è imbattuto nel corso della sua professione: tutti “cittadini del mondo” come lui.
Eppure, è in Medio Oriente che nasce l’esigenza, anche politica, di narrare la vita quotidiana del suo popolo, un popolo spesso in transito, come i 150.000 palestinesi che ogni giorno vengono a lavorare – più o meno legalmente – in Israele. Quasi sempre come costruttori che, con questa professione, da un alto, contribuiscono, con le loro entrate, al 25% dell’intera economia palestinese; dall’altro, grazie al loro contributo fondamentale nell’edilizia, rendono possibile non solo lo sviluppo del real estate ma della stessa Startup Nation: luci e ombre, paradossi e contraddizioni di due Paesi che, nonostante il conflitto, sono sempre più interdipendenti l’uno dall’altro. Come mostrano le potenti immagini di Raed Bawayah che, a sua volta, ha cominciato il suo percorso professionale proprio in Israele, in concomitanza con la Seconda Intifada, studiando fotografia presso la Musrara School of Photography di Gerusalemme, che gli permetterà, al termine degli studi, di essere selezionato per una art residence presso l’Istituto “La Cité” di Parigi, dove ora vive, dal 2006.
Al centro del suo lavoro, rimane soprattutto la gente di Qatanna, la sua città natale, che torna di tanto in tanto a visitare. Come spiega il curatore Guy Raz, “le fotografie in mostra presentano temi trasversali che esprimono una visione universale dell’essere umano. Nel percorso espositivo, sono state suddivise in base alle diverse zone geografiche dove Bawayah ha viaggiato e fotografato, con un focus speciale nei confronti del popolo palestinese ritratto nella serie ‘residenti illegali’ assieme a poliziotti, operatori della salute mentale, lavoratori dell’industria del carbone, semplici paesani, tutti contrapposti ad altri cittadini del mondo: immigrati, rom, gente di strada, giovani emarginati, lavoratori dell’industria del sesso”.
Categorie normalmente lasciate ai margini che, grazie allo sguardo di Bawayah, vengono osservati e rappresentati da un punto di vista paritario, creando una speciale intimità nell’incontro tra il fotografo, il soggetto fotografato e il pubblico che, allo stesso tempo, attiva un processo di riconoscimento, di archiviazione e di memoria. Per continuare con le parole del curatore: “La semplicità e la precisione delle sue fotografie acuiscono l’essenza del concetto di “punctum”, coniato dal celebre filosofo Roland Barthes: ‘graffi’, a volte duri e scioccanti, che si riflettono nelle fotografie e penetrano nell’essere di chi li osserva”. Una mostra sullo stato dell’essere umano, e umani, che racconta la difficoltà di vivere in questo mondo. In contrasto con l’estetica delle immagini che tende al “sublime”, toccando quello spettro tra il “dolce” e l’”amaro”, tra la bellezza e le difficoltà della vita.
Così, attraverso le sue foto, Raed Bawayah, anche da esiliato, torna alla sua patria, al suo villaggio, nella sua casa, da sua madre Fatima. E il bianco e il nero diventano il pattern, la “ripetizione” che da luogo ad una narrazione, che è anche narrazione del vivere. Per concludere con le parole dell’artista: “Nelle mie immagini in bianco, nero, e in tutte le loro ombre e sfumature, il nero rappresenta il dolore della vita e il bianco la sua catarsi, attraverso l’arte“. E, infatti, l’esperienza che si vive uscendo da questa mostra, è quella di un viaggio catartico.
Raed Bawayah, “Black life, white art”, MUZA, Tel Aviv, fino al 27 maggio 2023.