Il candidato Dem richiama il suo costante sostegno ad Israele, l’opposizione al movimento di boicottaggio e il sostegno agli aiuti militari. Una approfondita analisi e un confronto con l’approccio di Donald Trump nei confronti di Gerusalemme
Per certuni, sarebbe un coltello da infilare in un pano di burro, tanto è facile l’obiettivo; per altri, molti altri – invece – rimane qualcosa a cui aggrapparsi, a rischio di negare la medesima evidenza. Si dirà che sono opinioni e, come tali, discutibili a prescindere. Ma ci sono opinioni che si sorreggono sulle mere credenze (le “speranze”, tali poiché prescindono dalla realtà, rivelando infine la loro natura illusoria); così come ci sono opinioni, che tali rimangono, tuttavia ancorate ad un qualche dato di fatto.
Veniamo al dunque. Nei giorni trascorsi, per meglio intenderci durante un comizio in Wisconsin, Donald Trump, dinanzi alla platea degli astanti, ha candidamente affermato che lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è il risultato non solo di un intendimento suo proprio ma soprattutto della risposta alle pressioni derivanti da una parte del suo elettorato, quello di origine e radice cristiano evangelica. Non ebraica, beninteso. E neanche «sionista», per ciò che tale aggettivazione possa a tutt’oggi significare. Per inciso, il Jerusalem Embassy Act (JEA) – una legge approvata dal Congresso statunitense nell’ottobre del 1995, a grande maggioranza (93 voti su 100 a favore al Senato; 317 su 435 alla Camera), divenuta poi atto con valore esecutivo nel mese di novembre dello stesso anno, con la quale si riconosce Gerusalemme come città indivisa e capitale d’Israele – andrebbe quindi riletto, nella sua applicazione, alla luce di una tale concessione. Non ad Israele bensì ad un segmento di elettori statunitensi. Quello che più fa chiasso e rumore. Ancora una volta: non gli ebrei, ma i militanti dei gruppi di «rinascita» evangelicale, i «rebirth» che sono parte dell’ossatura ideologica di un’America non tanto conservatrice quanto suprematista.
Per essere chiari, ricapitolando, poiché la premessa è nota ai più, va rammentato che Gerusalemme è la capitale d’Israele ma, per una significativa parte della comunità internazionale, non è riconosciuta come tale. Quanto meno, non prima di un’adeguata negoziazione del «final status» del conflitto tra israeliani e palestinesi. Che è tutta a venire. La questione, quindi, rimane aperta, altrimenti essendo ritenuta «scelta unilaterale». Di fatto, le presidenze Clinton, Bush ed Obama, di volta in volta hanno richiamato ed applicato l’opzione del rinvio dell’adempimento alla norma in ragione degli interessi di «sicurezza nazionale». Solo con Donald Trump, nell’estate del 2017, si è iniziato a procedere nei fatti, arrivando al riconoscimento definitivo, il 6 dicembre di quell’anno, di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e, quindi, come legittima sede della maggiore rappresentanza diplomatica di Washington. Peraltro, anche a questa ultima manifestazione di volontà, sono seguiti passi non del tutto certi e incontrovertibili. Sta di fatto che, all’interno di questa cornice, è risaputo e riconosciuto il vivido sostegno dei cristiani evangelici rispetto ad una tale soluzione. In tutta plausibilità, maggiore di quella degli stessi ebrei americani. Poiché i primi ritengono che la cristianità possa pienamente realizzarsi solo se gli ebrei torneranno alla loro terra di origine.
Cosa c’entra tutto ciò con le elezioni presidenziali a venire? La convention democratica di Milwakee (qualcuno ricorda forse «Happy Days?») ha tributato a Joseph Robinette Biden Jr, detto «Joe», la nomination per sfidare, alle elezioni di novembre, Donald John Trump. Non è stata un’incoronazione, beninteso, bensì un’investitura meditata. Biden, benché conosca a fondo i meccanismi del potere federale americano, partecipandovi da circa cinquant’anni, non è il candidato ideale per i democratici. Si tratta, per diversi aspetti, di una figura di retrofila, anche se non di retroguardia. Semplicemente, ad oggi è il meno peggio. Il problema non è neanche il suo modesto profilo (il quale, non è detto che, alla fine, non giochi a suo favore), la sua mancanza di appeal, il suo essere da sempre nelle “seconde linee” del suo partito, ma la drammatica mancanza di idee innovative tra i democratici.
Non è un suo esclusivo problema, trattandosi semmai di una condizione che è letteralmente trasversale all’intero sistema politico. In America come nel resto del pianeta. Vale quindi anche per i repubblicani ed – immediato riflesso – per i cosiddetti «indipendenti» così, come tanto più, per le ali radicali. Le quali, rifacendosi alla nozione di «identità» come indice esclusivo dell’agire politico, tanto involontariamente quanto paradossalmente, rendono omaggio (e quindi rafforzano) i sovranismi e i populismi di varia risma. Poiché questi ultimi si alimentano del declino delle società intese come cornici di una cittadinanza diffusa, sostituendo ad esse – invece – le appartenenze di gruppo. Non quelle repubblicane, costituzionali e così via bensì le dimensioni particolariste. In politica, non si vince facendo la sommatoria delle identità, come se esse da sé costituissero, infine, una maggioranza, ma cercando di dare di volta in volta corpo e forma a quest’ultima. Che va ricreata daccapo, poiché il fuoco della grande trasformazione che stiamo vivendo è proprio la disarticolazione della Middle Class. Oltreoceano come nel «vecchio Continente».
Dopo di che, conviene tornare alle elezioni americane. Biden ha ricevuto il sostegno convinto della Obama Family, che ha sostituito, negli equilibri dei democratici, quella più aristocratica e autoreferenziale dei Clinton. Non è un caso. In quanto Biden da sempre è visto come il “vice”. Non solo da quando tale carica occupò per davvero nei fatti, in ben due mandati, tra la fine del 2009 e il 20 gennaio 2017. Ma a tutt’oggi. In quanto Obama ha una chiara intenzione, ossia di tornare alla presidenza per la successiva tornata, nel 2024. Per suo diretto tramite o per quello della moglie Michelle. Da tempo, infatti, si adopera sia per allargare la sua base di consenso tra democratici in crisi di identità (tra i repubblicani, forse, le cose sono ancora peggio messe), sia per rettificare unba parte degli errori commessi durante il suo mandato: la fallimentare politica di concessioni nei confronti dell’Iran e di una parte del mondo islamico, che si disinteressa, oramai, di Washington, confidando semmai su Mosca e quant’altri; la deludente applicazione della grande riforma sanitaria, che è pesata soprattutto su un ceto medio in recessione, premiando di meno gli ipotetici destinatari e molto di più il vorace circuito assicurativo; l’attenzione per le issues legate alle identità civili (“ciò che io ritengo di essere”) ma non alla complessa trama dell’integrazione sociale (“ciò che io ritengo di potere effettivamente possedere”, ovvero le risorse materiali), hanno consegnato al suo bizzarro ed eclettico avversario Trump un vantaggio competitivo. Obama, che da tempo – dopo il pit stop di quattro anni – si è candidato a rappresentare nei tempi a venire la metà della grande mela elettorale statunitense, quella per l’appunto democratica, ci sta pensando e si allena ai bordi. Auspicabilmente, per non commettere gli errori del passato. Per il momento, tuttavia, tocca a quello che è stato a lungo il suo vice. Nel ticket Biden-Harris, adesso alla ribalta, se non avverrà una catastrofe elettorale, tuttavia molto di più dipenderà dalla seconda. Biden, infatti, non è un Mosè che divide le acque, giocando contro di sé, tra le altre cose, l’età. Ma non solo. Kamala Harris, invece, morde i freni, avendo assestato un uppercut alla potente Elisabeth Warren e silenziosamente pensando a liquidare quel pezzo di aristocrazia democratica che ruota intorno alla generazione degli ottuagenari, a partire dalla speaker della Camera Nancy Pelosy. Il tempo dirà se tali prospettive abbiano un qualche legittimo fondamento o siano solo illusioni di una tarda estate. Non per questo Biden, va ripetuto, è un “pupazzo” oppure un candidato privo di autonomia. Più semplicemente, se non esprimerà un profilo autonomo (qualora dovesse essere eletto, quando avrà terminato il suo mandato – lo ripetiamo – sarà ultraottantenne), verrà letteralmente risucchiato da un mondo che sta cambiando.
Detto questo, qual è l’atteggiamento – e con esso il programma – dei democratici riguardo ad Israele? Lo riprendiamo nei suoi passaggi di fondo. Il primo punto è cheil presidente Trump ha reso Israele meno sicuro e ha indebolito le relazioni USA-Israele». Ad egli, infatti, oltre ad una retorica denunciata come non solo inconcludente ma anche deleteria, si contesta la volontà di non volere arrivare ad una reale soluzione del conflitto con i palestinesi sulla base del principio «due Stati per due popoli». Mentre i democratici, con Obama, si sono impegnati per un sostegno economico e militare di sostanza (valutato in 38 miliardi di dollari, a partire dai programmi missilistici di difesa, a partire dal 2016, per dieci anni complessivi di investimenti), Trump si sarebbe limitato a gesti di forma, retoricamente enfatici, più di immagine che non di sostanza. In altre parole, tale condotta avrebbe risposto maggiormante a calcoli di circostanza che non di reale intenzione. Risultando infine controproducente. A tale riguardo, l’amministrazione Trump, ritirando il contingente americano dalla Siria alla fine del 2019, non solo avrebbe abbandonato i curdi al loro destino ma, lasciando un vuoto di potere a favore dell’Iran, ne avrebbe favorito le manovre al confine settentrionale di Israele.</pre>
Il piano di pace Kushner, lanciato dall’attuale Amministrazione con grande enfasi nei mesi scorsi, sarebbe da sempre una sorta di lettera morta, incoraggiando piuttosto l’annessione unilaterale di una parte dei territori della Cisgiordania (con un grave nocumento per le future trattative, altrimenti sostenute dalle precedenti presidenze, a prescindere dal colore politico). A fronte di ciò, Biden richiama, tra gli altri, il suo costante sostegno ad Israele (Paese nel quale si recò, per la prima volta, nel 1973); il suo ruolo chiave, quand’era vicepresidente, nel garantire ad Israele la necessaria sicurezza; la sua opposizione al movimento di boicottaggio, disinvestimento e a favore delle sanzioni (BDS) nonché il sostegno agli aiuti militari al Paese (a partire dal programma Iron Dome e dai programmi antimissilistici); il rifiuto nel dare corso ad atti unilaterali, destinati altrimenti a pregiudicare le trattative di pace; il sostegno alla ripresa degli aiuti statunitensi all’Autorità nazionale palestinese, tuttavia in linea rigorosa con il Taylor Force Act (che vincola gli aiuti americani alle autorità palestinesi in base al loro esplicito rifiuto del terrorismo e del ricorso alla violenza contro i civili israeliani); l’azione anti-iraniana, aprendo al piano d’azione globale congiunto (JCPOA, il Joint Comprehensive Plan of Action) contro la nuclearizzazione di Teheran. A ciò si aggiunge l’accusa, sempre rivolta a Trump, di avere vellicato, quanto meno implicitamente, l’antisemitismo presente negli ambienti suprematisti, che non hanno mai disdegnato di manifestare un qualche sostegno all’Amministrazione uscente.
Il programma di Biden, al netto dei prevedibili auspici su una proficua collaborazione bilaterale tra Washington e Gerusalemme («Israele manterrà sempre il suo vantaggio militare qualitativo»; «sostenere il fondamentale partenariato economico e tecnologico tra gli Stati Uniti e Israele, espandere ulteriormente la collaborazione scientifica e aumentare le opportunità commerciali ed alimentare la cooperazione sull’innovazione in tutta la regione»), auspica la ripresa di contatti e, in prospettiva, di negoziazioni, tra quest’ultima e Ramallah. Una tale prospettiva, scarsamente accreditata dal governo Netanyahu-Gantz, è la premessa per esercitare un lungo affondo contro il «taglio distruttivo dei rapporti diplomatici con l’Autorità nazionale plestinese» attribuito a Trump. Poiché, aggiunge il programma democratico, gli Stati Uniti non possono derogare dal loro ruolo di mediazione.
Ciò che l’attuale presidente andrebbe facendo, quindi, non è nell’interesse di Gerusalemme ma per esclusivo calcolo di parte. La propria. Al riguardo, viene ribadito che: «le azioni di Trump hanno ostacolato le prospettive di una soluzione a due Stati. Il piano di pace era morto in origine, nonostante fosse stato pubblicizzato dalla Casa Bianca come “l’accordo del secolo”, ovvero una soluzione alle sfide di Israele. L’Amministrazione ha proposto un piano che è stato concepito senza alcun contributo da parte dei palestinesi ed è stato respinto all’unanimità dalla Lega araba. Il piano di Trump ha reso [quindi] più sfuggente una soluzione negoziata a due Stati del conflitto israelo-palestinese, codificando misure estreme come l’annessione e il trasferimento della cittadinanza araba. Se Israele annettesse unilateralmente ampie aree della Cisgiordania, come previsto nel piano di Trump, metterebbe definitivamente in discussione il suo futuro come Stato sia democratico che ebraico». A tale riguardo, «la proposta di Trump ha scatenato grandi proteste in Giordania, mettendo a repentaglio la stabilità di un alleato regionale già fragile ma cruciale. L’annuncio di Netanyahu che avrebbe annesso la Cisgiordania e la Valle del Giordano ha anche messo a rischio un accordo di pace di lunga data tra Israele e Giordania, vitale per la sicurezza di Israele». In buona sostanza, «il fallimento dell’amministrazione Trump nell’opporsi all’annessione mette in discussione il suo impegno per la sopravvivenza di Israele come stato ebraico e democratico». Un altro punto è quello per cui «le politiche di Trump stanno rendendo il Medio Oriente più pericoloso per Israele». La vocazione “isolazionista” sta lasciando varchi aperti all’Iran, ad Hezbollah, ai gruppi sovversivi e terroristici presenti in Siria. Bisognerà quindi considerare ogni passo in base alla geopolitica russa, turca e iraniana. In quest’ultimo caso, «il ritiro di Trump dall’accordo con l’Iran, mentre quest’ultimo era ancora in regola, ha danneggiato la credibilità degli Stati Uniti, ci ha alienati dai nostri alleati, ha aumentato la probabilità che l’Iran stesso potesse acquisire armi nucleari e ci ha lasciato con meno strumenti per contrastare Teheran. La cosiddetta pressione che l’Amministrazione ha esercitato sull’Iran non ha quindi cambiato in meglio il comportamento delle sue classi dirigenti».
A fronte di ciò, «Trump ha alimentato l’ascesa dell’antisemitismo e del nazionalismo bianco». Seguono una serie di affermazioni per cui<b> «</b>l’81% degli ebrei americani è maggiormente preoccupato per l’antisemitismo da quando Donald Trump è diventato presidente. Secondo un altro sondaggio, il 68% degli elettori ebrei si sentirebbe meno sicuro di due anni fa e il 71% degli ebrei disapproverebbe il modo in cui il presidente ha gestito la questione dell’antisemitismo». A rinforzo di ciò, «Trump ha ripetutamente fatto osservazioni antisemite nei confronti degli ebrei americani, tra cui l’accusarli di essere “sleali” nei confronti di Israele votando per i democratici, dicendo [inoltre] che “non amano abbastanza Israele” e suggerendo che i suoi sostenitori ebrei votino per lui solo per proteggere la loro ricchezza. La campagna presidenziale di Trump ha adottato stereotipi antisemiti […]. Nell’ottobre del 2018, Trump ha promosso una teoria del complotto antisemita su Twitter. Trump ha accusato gli ebrei di doppia lealtà al White House Hanukkah Party del 2018 e nell’aprile 2019 a Las Vegas. Trump ha affermato, nell’agosto 2019, che gli ebrei americani che votano democratico […] sono ignoranti o “sleali”. Quando gli è stato chiesto di chiarire, ha detto che intendeva “sleali verso Israele”. Nel dicembre 2019 Trump ha nuovamente invocato paradigmi antisemiti sulla doppia lealtà e l’avarizia, ebraica che i gruppi ebraici hanno [poi] denunciato. Trump ha emesso un ordine esecutivo sull’antisemitismo quattro giorni dopo aver formulato osservazioni antisemite che molti gruppi ebraici hanno denunciato in quanto tali». In ultimo, «i nazionalisti bianchi e i neonazisti sostengono e sono incoraggiati da Trump, [mentre] lui peggiora le cose rifiutandosi di condannarli chiaramente». La dura sequela di condanne prosegue, seguendo quattro binari principali: la politica democratica contro l’Iran; la necessità di trovare, in campo palestinese, un interlocutore credibile, anche nell’interesse di Gerusalemme; la condanna dell’antisemitismo e del razzismo («Trump non unisce, semmai divide»); la rivendicazione, nella tradizione democratica, di una netta e prevalente posizione a favore degli ebrei.</pre>
Non è plausibile che l’esito del confronto tra Biden e Trump si giochi solo su questi piani. L’elettore americano, infatti, è preoccupato soprattutto dagli effetti economici della pandemia. Si intende poco, se non nulla, delle questioni internazionali. Il Medio Oriente, per molte famiglie, è soprattutto il luogo in cui uno dei loro figli è andato a fare una corvée militare. Così come la considerazione nei confronti degli ebrei segue spesso andamenti molto differenziati a seconda delle contee e degli Stati presi in considerazione. L’antisemitismo, non a caso, è maggiormente diffuso in ambito rurale, a tratti appartenendo quasi ad una sorta di “deep tradition”. Il punto è che per Trump una parte non secondaria dei consensi arriva proprio da quell’America profonda, ancora perlopiù Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), ma non solo, che fatica sempre di più a stare dietro al vortice dei cambiamenti in atto. Su come una tale carta verrà giocata dai democratici, fortemente ancorati anche al voto metropolitano, ce lo dirà a breve, tra le altre cose, la tornata elettorale che si sta approssimando.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.