Vecchi e nuovi pregiudizi antisemiti e anti israeliani intorno ai fatti del 7 ottobre
C’è qualcosa che, al medesimo tempo, ci angoscia e rattrista: si tratta della cappa di sordo silenzio che è calata sul 7 ottobre. Ossia, su quanto concretamente è successo in quel giorno e, con esso, intorno a quelli immediatamente successivi. Quindi, a quel gigantesco sabba antigiudaico che, nelle tante piste di distruzione che è riuscito a lasciare dietro di sé, ha anche celebrato una sorta di catarsi rigenerativa. Quella fascista, nella figura del maschio paramilitare che, stroncando vite di indifesi e innocenti, soprattutto donne e minori, rigenera le ragioni di un patto di sangue, tale poiché lega la sua militanza necrofila con il destino di una comunità nazionale. In questo caso, quella palestinese, tuttavia soggiogata e subordinata – nella sua vitale esasperazione – ad un potente gruppo di potere. Poiché il Jihad di Hamas è esattamente questo e non altro: l’atto supremo di quanto, assai spesso, è invece frainteso come «lotta di liberazione» quando, semmai, è espressione di subalternità e distruzione. Con il 7 ottobre 2023, per chi si avvede del senso della storia, tutto è cambiato. Ovvero, nulla sarà più come prima. Che ci piaccia o meno. Ciò che conosciamo come «conflitto arabo-israelo-palestinese» ha infatti assunto un nuovo indirizzo, ancora tutto da comprendere ma, non per questo, meno verace e quindi destinato ad influenzare le esistenze di ognuno di noi.
Hamas sta alla comunità palestinese così come i Khmer rossi stavano agli interessi delle società cambogiana. Proprio per questo, quindi nel suo manifestarsi come assolutistico dominio, come mera sopraffazione di una società a rischio di disgregazione, può vantare alcuni addentellati, raccogliendone quindi parte dei consensi. Il dominio, infatti, si dà come assoluto solo se si puntella di un qualche seguito popolare. Condividendo esasperazioni e disperazioni per quindi tradurle in bisogno di esclusiva rivalsa. Tuttavia, nei fatti concreti, si rivela ben presto l’artefice della distruzione di ogni ipotesi di pluralismo. Non a caso i pifferai di morte, nella storia più recente, hanno raccolto – allora come oggi – un discreto seguito, quello che scambia le antiche oppressioni per nuove liberazioni. La storia si ripete, ed in questo non è farsa bensì, ancora una volta, tragedia. Che continua nel tempo. Così, quindi, nel caso palestinese. Fin troppo facile l’inganno di mettere gli avversari con le spalle contro il muro, dicendogli che qualsiasi loro espressione politica sia delegittimata a prescindere. Che è poi il criterio con il quale si azzera qualsivoglia ipotesi di interlocuzione. Rimane il fatto che proprio Hamas, fino a prova contraria, ha fatto di ciò la sua stessa ragion d’essere, ingenerando una totale, completa, assoluta indisponibilità nel riconoscere l’esistenza di ciò che ancora oggi liquida come «entità sionista». Con i proiettili, i razzi e i coltelli adoperati contro la popolazione inerme, ne ha dato ancora una volta una prova indiscutibile, se mai ce ne fosse stata ancora una qualche necessità.
Nella comunicazione e nella discussione pubblica – invece – ci si sofferma, semmai, sul dopo il 7 ottobre (quindi le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza) così come sul prima (le condizioni che hanno fatto da cornice ai fatti di quelle terribili giornate). Di per sé elementi imprescindibili per capire una complessa traiettoria ma, al medesimo tempo, strumenti che, se utilizzati in chiavi esclusiva, possono portare velocemente fuoristrada. Ripetendo quindi cliché tanto stanchi quanto radicati, tali poiché spesso aggrappati ad una sorta di ossessivo atteggiamento, basato su un pregiudizio di principio, ossia che l’autentica ragione dei mali di quella regione sia una sola, ovvero la scandalosa esistenza dello Stato d’Israele, negativamente connotato – da sempre – nel suo essere una sorta di braccio armato dell’«imperialismo» e del suprematismo occidentale. Nel qual caso, non si chiede più nessuna soluzione negoziata (ammesso e non concesso che ce ne siano ancora le condizioni). Piuttosto, si rivendica il superamento e l’estinzione dell’«entità sionista», con tutti gli strumenti a propria disposizione.
Non che tutto ciò, ad onore del vero, costituisca una novità ma, nel suo odierno ripetersi, a voce alta, con un crescente grado di impudicizia politica e condivisa amoralità, riconduce il “dibattito” pubblico al 1947, fingendo che il vero obiettivo politico da praticare sia l’estinzione chirurgica della prospettiva di quel che, invece, continua ad essere l’unica soluzione plausibile, ossia la coesistenza di due comunità distinte in due diverse organizzazioni politiche ed istituzionali. Il fatto che fino ai nostri tempi ciò non sia per nulla successo, ponendo semmai molte premesse per la sua sopravveniente impraticabilità materiale, comunque nulla toglie all’obbligo etico, di qui in avanti, di continuare a sforzarsi in tale senso. Detto questo, rimangono i nodi concretamente irrisolti. Per quanto ci riguarda, sono tantissimi. In nessun modo inediti, per l’appunto.
Sono infatti tornati in auge, nelle manifestazioni a favore della «Palestina», i peggiori slogan, quelli che fingono un falso consenso, basato sulla distruzione non solo d’Israele ma anche delle stesse specificità palestinesi. Le immagini parlano chiaro, ancora una volta: si tratta di cancellare lo «Stato ebraico», quindi il suo sofferto e irrisolto pluralismo, nel nome del monismo arabo-musulmano. Il tutto, si intende, ricoperto di una fittizia patina di consensualismo, quello che deriverebbe dal comprendere le ragioni degli «oppressi» cancellando i motivi storici di coloro che sono invece rubricati, una volta per sempre, come «oppressori». L’intera storia del confronto tra ebrei ed arabi prima, e tra israeliani e palestinesi poi, è attraversata da una tale falsa dicotomia: le ragioni da una parte, i torti dall’altra. Di mezzo, niente e nessuno.
Con il 7 ottobre, infatti, si è consumato uno dei peggiori pogrom antisemiti che la storia ebraica possa ricordare. Ma non solo. Poiché è stato tale, anche e soprattutto, in quanto si è rivelato essere una sorta di stupro di massa. Esercitato, ogniqualvolta possibile, contro le donne. E da molte donne di altri paesi, del tutto incompreso come tale. L’empatia e la solidarietà, a tale riguardo, salvo poche eccezioni, si è rivelata nulla. Con il paradosso montante che non poche associazioni e organizzazioni femministe e, come tali, rivolte alla libertà di genere, le quali dicono quindi di lottare contro ciò che definiscono come dominio del «patriarcato», si stiano invece tragicamente rendendo suddite ad esso, nel momento in cui lo scambiano per una sorta di improbabile «lotta di liberazione» collettiva.
La fratellanza (e la sorellanza) espressa verso le vittime civili del 7 ottobre, come anche dei giorni successivi, ci è infatti parsa non solo tiepida, stanca e del tutto incosciente, ma soprattutto di mera circostanza. Una sorta – quindi – di adempimento recitativo tanto obbligato quanto poco convinto. In cerca, semmai, di nuove valvole di sfogo. Cerchiamo di capirci: le vittime di una violenza, a partire dallo stupro collettivo, sono tali non perché intrinsecamente incontaminate ed innocenti bensì per la loro concreta condizione di soggetto indifeso rispetto all’altrui violenza. Quindi sopraffatte in quanto obiettivo non solo di una furia fisica ma anche di una sorta di rituale collettivo, di stampo dichiaratamente sessista, machista e criminale. Nulla, da un tale riscontro, è derivato alla consapevolezza dei movimenti e dei gruppi che dichiarano invece di volersi opporre, sempre e comunque, ad una tale deriva.
Anche per tutto ciò, siamo angosciati e afflitti. Non siamo anime belle alla ricerca di un improbabile terreno di scambio e mediazione, laddove esso non si dia. Per farlo, ci vorrebbe semmai una controparte che, pur partendo da interessi tanto simmetrici quanto contrapposti, intenda quindi pervenire ad una qualche forma di negoziazione. Nulla di questo, dal 2000 in poi, si è dato. Beninteso, non è mera colpa di uno dei due soggetti in gioco. I governi di Israele, succedutisi nel tempo, non sono per nulla esenti da imputazioni di responsabilità. Con essi, anche non pochi protagonisti della vita civile israeliana. Rimane tuttavia il fatto che in questo bailamme di querule parole, di facili giudizi e consolidati pregiudizi, in un crescente frastuono di rumori e urla, ci sono troppe ambiguità, calcolati equilibrismi, comodi distanziamenti dissimulati sotto la coltre di una rivendicazione di libertà e parità che si ferma dinanzi ad appartenenze di gruppo, reali o puramente simboliche che esse siano.
Come società e comunità pluraliste, tali poiché – al medesimo tempo – capaci di contemplare le differenze e, al medesimo tempo, consapevoli di non riuscire ad essere esenti dal comminare il male – tuttavia rivendichiamo la nostra onestà di giudizio. Quand’anche registriamo certi atteggiamenti, a partire da quelli omissivi di non poche organizzazioni femministe, che non sono per noi per nulla stupefacenti. Infatti, non costituiscono un errore temporaneo, uno svarione occasionale, una deficienza momentanea. Semmai ci restituiscono il perenne stato confusionale che, non da oggi, ibrida e intossica legittimi desideri di liberazione collettiva – così come di emancipazione personale – quand’essi si confondano con infatuazioni di lungo periodo verso le agenzie del terrore, machiste e rigorosamente misogine, che dicono di parlare nel nome degli oppressi quando, invece, curano i propri esclusivi interessi.