Cultura
Il sionismo, allora ed oggi – prima parte

Per comprenderne a fondo il significato occorre ricostruire la sua evoluzione storica, culturale, politica e sociale e tornare indietro di due secoli…

Che cosa significa la parola «sionismo»? Per comprenderla dobbiamo ricostruire la sua evoluzione storica, culturale, politica e sociale. Partendo dai due secoli trascorsi. Nella storia dell’ebraismo occidentale l’evento periodizzante, ovvero destinato a costituire il fattore di svolta, è infatti legato all’apparizione sulla scena pubblica europea del movimento sionista a matrice politica. L’aggettivazione, in questo caso, è fondamentale poiché distingue le moderne idee, e la prassi, che ad esso si ricollegano, da quelle antiche idealità che mai erano venute meno nelle comunità ebraiche dell’Esilio. Esiste un antico nesso tra identità e terra, tale da alimentare una costante speranza in un qualche ritorno. Il formulare propositi in tal senso non costituiva pertanto una novità in campo ebraico. Semmai era l’altra faccia della medaglia della dispersione (Galut-Golà): la concreta condizione esiliaca, insieme al desiderio di una sua felice conclusione, secondo i dettami della tradizione.

Vi furono dei precursori, quindi. La stessa data di nascita del sionismo è oggetto di discussione, a seconda delle opinioni che, di volta in volta, prevalgono. Se non c’è unanimità sul quando far esattamente iniziare il tutto, pur tuttavia è certo che l’immigrazione di ebrei religiosi, a titolo individuale o in piccoli gruppi – flusso che peraltro non venne mai meno, neanche dopo la nascita d’Israele – non è da considerarsi come una manifestazione propriamente sionista. Non almeno per come andremo definendo tale movimento. Questi ebrei, rigorosamente legati al patrimonio religioso, venivano infatti nella Palestina ottomana per stabilirsi in una delle città sante (Hebron, Safed e Gerusalemme soprattutto), per poter meglio adempiere ai precetti, per dedicarsi interamente ad una vita di studi e, infine, per morirvi venendo inumati in una terra che ritenevano sacra.

In questo senso vanno senz’altro intese alcune migrazioni, per l’appunto presioniste, di gruppi di religiosi, soprattutto nel primo Ottocento, quando il miglioramento delle vie di comunicazione e il sistema delle capitolazioni (l’insieme delle guarentigie offerte dalle potenze straniere ai membri delle minoranze religiose abitanti nei territori ottomani; di fatto costituiva un sistema di privilegi, come l’immunità dalla giurisdizione turca, previsti da accordi internazionali a favore di cittadini occidentali, o appartenenti a determinate religioni, in paesi non cristiani), esercitato dalle potenze occidentali sulle minoranze etnico-religiose, ne agevolarono la realizzazione.

Di fatto l’immigrazione ebraica in quegli anni è direttamente proporzionale al grado di protezione offerto da paesi come la Gran Bretagna o la Russia, prosaicamente interessati in questo modo a ingerirsi negli affari dell’Impero ottomano (complessivamente gli ebrei che vivevano nell’Impero ottomano all’inizio del XX secolo erano complessivamente 314.000; nel 1839, insieme alle altre minoranze, avevano ottenuto la piena eguaglianza civile, il diritto di diventare funzionari dello Stato e di fare parte dell’esercito). Al mutamento dei rapporti di forza, in buona sostanza, corrispondeva un incremento delle possibilità di migrare. La prima comunità aschenazita sorse a Hebron nel 1820, per impulso dei «hassidim» (storicamente un tale temine indica tre fenomeni: nella radice semantica, «coloro che sono devoti», si richiama, nella storia ebraica, ad un gruppo di resistenti del II secolo ante era volgare, all’inizio della rivolta dei Maccabei; ad un movimento pietista del XIII secolo; ai seguaci del movimento di rinascita giudaica fondato nella prima metà del XVIII secolo da Israel Baal Shem Tov) del movimento Lubavitch (dal bielorusso Lyubavichi, «la città dell’amore fraterno», o Chabad Lubavitch, rimane una delle più importanti articolazioni dell’hassidismo contemporaneo nonché una delle maggiori espressioni dell’ebraismo ortodosso; i suoi aderenti, circa 200.000, sono conosciuti come Lubavitchers o Chabadniks, sono presenti perlopiù in Israele e negli Stati Uniti).

Negli stessi anni, e nei decenni successivi, alcuni ebrei provenienti dall’Africa settentrionale andarono a risiedere a Giaffa-Yafo-Yaffa. In quei decenni, l’arrivo di singoli ebrei pii e dediti alla religione nell’area palestinese ottomana non era vissuto come un problema di ordine politico. Non tale, comunque, da dover sconvolgere o trasformare gli equilibri demografici e sociali nel luogo periodo. Peraltro, sull’onda delle opportunità che si dischiudevano agli europei, alla luce dei cambiamenti di egemonia in corso nel Mediterraneo, vi fu chi iniziò a pensare alla creazione di una zona ebraica autonoma, sotto il controllo di Costantinopoli-Istanbul. A fronte di questi movimenti spontanei di piccoli segmenti di popolazione, si iniziava a formulare un pensiero più strutturato riguardo alle possibilità di un effettivo ritorno a Sion.

Ovvero, pur essendo ancora al di qua del superamento della linea che divideva l’anelito spirituale dal progetto politico, alcuni precursori iniziavano a porre le premesse di quel che nel giro di qualche decennio si sarebbe trasformato in un movimento dai tratti ben definiti. È il caso di personalità, molto differenti tra di loro, che tuttavia condividevano l’assunto per cui il popolo ebraico fosse una nazione, ovvero un insieme di individui che avrebbero dovuto dotarsi, prima o poi, di comune istituzioni politiche, non diversamente da tante altre. Poiché la sua sopravvivenza era legata a ciò, ossia anche al recupero della cognizione di sé come gruppo nazionale, si dovevano incentivare in ogni modo possibile quei gesti che avrebbero potuto agevolarne la ricomposizione. Da ciò sarebbe derivato il moto verso la ricostruzione di un’unica patria. Così il rabbino Yehuda Alkalay, nato a Belgrado e trasferitosi a Gerusalemme nel 1871, che per primo si adoperò per rileggere le categorie del messianismo, di cui è intrisa la tradizione ebraica, nei termini non solo di un concreto ritorno alla Terra dei Padri ma della costituzione in una moderna società politica.

L’interpretazione modernizzante dei testi e dei canoni non piacque di certo ai gruppi religiosi ortodossi, che non solo la rigettarono ma ne osteggiarono apertamente la diffusione. Il nazionalismo di tipo moderno, come andava progressivamente prefigurandosi nella mente di Alkalay, era peraltro incompatibile con i dettati tradizionalisti. Non di meno Zevì Hirsch Kalisher, anch’egli rabbino e per di più ortodosso, nel 1862 sostenne in un suo libro, «Derishat Zion» («Cercando Sion»), la tesi della necessità immediata di un ritorno in massa in Eretz Israel, la terra fisica di Israele. Kalisher fu, come tale, figura atipica tra gli ortodossi, mantenendone la matrice culturale e religiosa ma essendo attratto dagli sviluppi sociali e politici dei suoi tempi, ai quali aveva dedicato grande attenzione. Cercando quindi di coniugare il rispetto dell’ortodossia al recepimento dell’innovazione politica in corso in tutta Europa, si impegnò ad interpretare l’emancipazione in termini verosimilmente tradizionalisti: il tempo del Messia si stava approssimando e per accelerarne la venuta occorreva che gli ebrei si mettessero in cammino verso Sion. Laddove avrebbero costruito una società basata su una redenzione «naturale», umana, consona alla successiva, autentica redenzione, quella «sovrannaturale», che Dio avrebbe infine compiuto.

Queste idee, liberate dell’impalcatura messianica, iniziavano ad incontrare il favore di potenziali finanziatori. Senza il denaro nulla si sarebbe potuto fare. Il concorso dei filantropi – quindi – era indispensabile. Così con Moses Montefiore prima, poi con l’Alliance israelite universelle (l’«Alleanza israelitica universale», la prima di una serie di organizzazioni ebraiche transnazionali che nacquero tra l’Ottocento e il Novecento; fondata a Parigi, nel 1860, aveva ad obiettivo di proteggere i diritti degli ebrei in quanto cittadini e di promuovere l’educazione e lo sviluppo professionale dei medesimi) e il barone Edmond de Rothschild. Nel novero dei precursori del sionismo politico costituito dai religiosi si affiancò ben presto anche un laico, Moses Hess, pensatore e rivoluzionario, uno dei primi socialisti tedeschi, assai prossimo a Karl Marx ancorché influenzato soprattutto dalle letture filosofiche, in particolare di Georg Friedrich Hegel e Baruch Spinoza. Pur avendo ricevuto una formazione religiosa, si era poi avvicinato alle posizioni assimilazioniste. Dopo i fatti di Damasco del 1840 – quando i locali membri della comunità ebraica furono accusati di sacrifici rituali a danno di cittadini cristiani – si era infine convertito all’idea del nazionalismo ebraico, influenzato in ciò dalle vicende del Risorgimento italiano e dal pensiero di Mazzini.

Nel 1862 il saggio «Roma e Gerusalemme» postulava che la via all’indipendenza nazionale avrebbe aperto quella del progresso sul piano sociale e della giustizia. Per salvare lo spirito ebraico dalla sua consunzione, nel momento in cui la religione, che ne aveva garantito la persistenza nel tempo, andava tramontando, era indispensabile procedere sul percorso della ricostruzione di una vita nazionale nella patria storica degli ebrei. Sta di fatto che tali affermazioni, negli anni a cavallo tra il 1850 e il 1870, quando furono formulate, raccoglievano scarso interesse tra il pubblico ebraico, il quale le giudicava utopistiche non meno che stravaganti; più semplicemente, non si curava d’esse non essendone neanche venuto a conoscenza.

Tra riformismo ebraico assimilazionista (fare come tutti i cittadini non ebrei, riconducendo l’ebraismo a sola sfera religiosa strettamente personale) e ultraortodossia separazionista (vivere in gruppi separati, sostanzialmente estranei al resto del mondo) altre posizioni presero piede, facendosi partigiane della via nazionalista alla soluzione del problema della sopravvivenza degli ebrei, minacciati dall’assimilazione come dal rinnovato antisemitismo. Un aspetto importante era costituito dalla lingua. L’ebraico moderno, scritto e parlato, conosceva già nella seconda metà dell’Ottocento uno crescita a sé, indipendente da qualsiasi legame con le posizioni di chi iniziava a professarsi sionista. Ma fu proprio il suo sviluppo come idioma vernacolare a favorire una prima diffusione degli ideali sionisti, laddove il legame tra lingua e nazione costituisce da sempre un nesso inscindibile. Lo scrittore e lessicografo Eliezer Ben Yehudah, che molta parte avrebbe avuto nella crescita dell’ebraico moderno, fu tra i promotori di questo connubio. Pur considerando la Terra d’Israele più come un polo morale e spirituale che non all’interno di un compiuto progetto politico di natura territorialista, sostenne che solo una lingua moderna e autoctona avrebbe rigenerato un popolo altrimenti diviso. A tal proposito fondò quindi «Tehiat Israel» (la «resurrezione d’Israele»), un’associazione basata sul lavoro della terra, il ricorso all’ebraico parlato, lo sviluppo di una letteratura ebraica moderna, l’educazione umanista e il rifiuto della dipendenza economica.

Ma la prima, vera espressione del sionismo moderno è quella degli «Hovevei Zion» (gli «Amanti di Sion», come anche «Hibbat Tzion», ossia «amore per Sion»), sia per il contesto in cui il movimento nacque e si sviluppò sia per i suoi contenuti. Da una parte, nella seconda metà dell’Ottocento, a fronte della marea montante dell’antisemitismo, c’era il tramonto delle speranze di integrazione nella Russia zarista, dall’altra la nascente ma gracile opzione palestinese. Tra il 1881 e il 1914 ben oltre due milioni e mezzo di ebrei emigrarono verso gli Stati Uniti. Si trattava di un moto collettivo, dinanzi alle ostilità della popolazione, fomentate dalle autorità zariste e ortodosse, e all’indifferenza degli intellettuali russi. Gli Amanti di Sion cercavano di dare un indirizzo di senso a questa epocale migrazione, avanzando l’obiettivo di una ricomposizione nazionale, non nel nuovo mondo americano ma nella patria ancestrale. Le loro proposte erano semplici e concrete: prepararsi al cambiamento con il lavoro manuale, recarsi in Palestina e acquistare più terra possibile, coltivarla e costruire, passo dopo passo, un luogo ospitale da dove edificare una società ebraica.

A fronte di un tale «sionismo pratico» (pensare ma soprattutto fare), che nella sua concretezza avrebbe dovuto agevolare i risultati materiali, questi ultimi si rivelarono scarsi. Di fatto l’attività del movimento si ridusse ad un impegno filantropico (gli obiettivi politici non solo risultavano ancora estranei al pensiero dei loro leader, fortemente legati all’impostazione religiosa, ma erano interdetti dalla rigida vigilanza delle autorità russe) e all’acquisizione di terre. Dalla Russia, dove erano nati, gli Hovevei Zion si diffusero in Romania, paese nel quale gli ebrei soffrivano per le difficili condizioni causate dall’antisemitismo istituzionale, praticato dalle autorità.

L’arrivo di un buon numero di «pionieri» ebrei in Palestina nella primavera del 1882 rivelò lo scarto che sussisteva  tra le originarie intenzioni e i fatti concreti: solo il generoso intervento finanziario del barone Edmund de Rotschild evitò che l’impresa fallisse completamente. Il brusco confronto con la realtà delle cose si ripercosse sul movimento, che già nel 1884, sia pure tentando di centralizzare e formalizzare le proprie attività, si trovava in difficoltà. Quel che più gli difettava era soprattutto una dirigenza costituita da personalità in grado di affrontare i problemi dettati dalle circostanze, permettendo all’originario idealismo delle intenzioni di tradursi in un realismo delle possibilità. Tuttavia, il movimento degli Amanti di Sion animò per intero quella che sarebbe stata conosciuta come la prima «aliya», l’ascesa verso Sion, ossia il percorso immigratorio. La guida intellettuale era Léon Pinsker con il suo libro su l’«Auto-emancipazione. Appello ai suoi fratelli di razza di un ebreo russo» (1882) che smentiva le speranze assimilazioniste, definendo l’antisemitismo come «un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e, poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile». Il problema di fondo era l’impossibilità di annoverare il popolo ebraico tra le nazioni della terra. A questa insostenibile condizione si doveva ovviare costruendo una nazione ebraica, raccolta su di un territorio, non importa quale, tale però da costituire «una frontiera dietro la quale gli ebrei potranno ripararsi».

Le difficoltà nelle quali versavano i primi tentativi di colonizzazione avviarono un dibattito sul «che fare?», dal momento che sembrava che tutto dovesse finisse nell’impasse. Il filosofo e pensatore Asher Hirsch Ginzberg, che aveva assunto lo pseudonimo di Ahad Ha-am («Uno del popolo»), criticò l’approccio pragmatico, contestando il fatto che il pionierismo si riducesse ad un movimento per la colonizzazione delle terre. Nessun cambiamento tangibile si sarebbe registrato se quanti intendevano migrare in Palestina non avessero ricevuto un adeguato grado di preparazione educativa e spirituale. Qualsiasi passo verso la ricostruzione di un nazione unita avrebbe richiesto, parallelamente, un impegno per l’unificazione spirituale e morale. L’ebraismo diasporico viveva la condizione di oscurità dell’Esilio, sempre più spesso aborrito dai pensatori sionisti, avendo perso buona parte della sua tradizione e della sua vitalità. Il riconquistare l’una e l’altra imponeva una riforma interiore che il sionismo pratico degli Amanti di Sion non poteva garantire, con la sua fretta di bruciare le tappe. Peraltro Ginzberg non era l’unico a pensarla in questi termini: anche il più grande poeta sionista, Chaim Nachman Bialik condivideva opinioni simili. L’idea che la Terra d’Israele dovesse essere il «centro spirituale» per un popolo in crisi, ma non necessariamente il luogo fisico nel quale tutti gli ebrei si sarebbero dovuti recare, non coincideva, peraltro, con quello che sarebbe diventato ben presto l’assunto del sionismo politico, ossia che la patria ebraica avrebbe coinciso con il popolo ebraico in quanto tale e con le sue istituzioni politiche Poiché se per Ginzberg «il problema principale non era quello degli ebrei ma, piuttosto, quello del giudaismo, minato dalla disintegrazione rapida della fede e dell’identità religiosa», per i «politici» la questione era ben altra, avendo a che fare con la costruzione della nazione (quindi di una società e di uno Stato, secondi i dettami della modernità).

Parte 1

Claudio Vercelli

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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