Si è rivelata decisiva la partecipazione delle quattro assicurazioni sanitarie nazionali che hanno creato una rete capillare di centri operativi slegati dai grandi nosocomi e dagli ambulatori degli ospedali
Israele viaggia veloce nella campagna contro il Covid 19. Passo dopo passo, dal 20 di dicembre in poi, fino ad arrivare ai nostri giorni, si è vaccinato il 90% degli ultra cinquantenni, il 51% fra i 16 e i 19 anni (gli allievi delle scuole), il 69% fra i 20 e i 29, il 46% fra i 30 e i 39 e l’81% fra i 40 e i 49. L’indice Rt è sceso allo 0,76 e il tasso di positività è caduto al 2,4%. Nella prima settimana di distribuzione del vaccini sono state iniettate 380mila dosi giornaliere; successivamente, andando a regime, si è giunti a mezzo milione di dosi al giorno. I nove milioni di cittadini – al netto di quanti non intendano vaccinarsi, comunque calcolati in un quarto della popolazione, perlopiù nelle enclave degli arabi israeliani e tra gli ultraortodossi – dovrebbero terminare il ciclo delle due dosi entro maggio o giugno. Entro la fine di marzo tutti i cittadini sopra i sedici anni, che lo abbiano chiesto, dovrebbero comunque essere già stati vaccinati. La qual cosa corrisponde alla messa in sicurezza del Paese, con il raggiungimento dell’immunità di gregge. Per ottenere un simile risultato in Italia, si dovrebbero coprire almeno 40 milioni di connazionali, pare a 4,5 volte la popolazione israeliana.
Dall’esplosione della pandemia, nel marzo dell’anno scorso, Israele ha dovuto fare fronte a tre lockdown totali, per 139 giorni complessivi. La rigida chiusura di molte attività, soprattutto commerciali e dei servizi, si è protratta per un lasso di tempo ancora più lungo. Solo con il 7 marzo si è quindi potuto procedere ad una riapertura generalizzata, essendo ancora vigenti alcuni limiti e restrizioni per quelle situazioni e quei luoghi che implicano una forte densità di presenze. I morti, in un anno, sono stati poco più di 6mila. I casi totali di positività, al 16 marzo, avevano raggiunto le 823mila unità, mentre le guarigioni arrivavano a 790mila. Per stabilire un qualche elemento di paragone, nel mondo i casi totali registrati per lo stesso arco di tempo ammontano a 121 milioni, le guarigioni raggiungono la metà degli infettati, con 68 milioni e mezzo, i decessi sono complessivamente 2 milioni e 670mila individui. A due settimane dall’inizio della distribuzione della seconda dose si è registrato un crollo degli indici più significativi, ossia la decrescita del 98,9% della mortalità così come delle ospedalizzazioni e del 99,2% dei casi gravi, necessitanti di trattamento con terapie intensive o sub-intensive. Si è passati dagli ottanta morti al giorno nel mese di dicembre agli attuali sedici.
Si tratta, comunque si voglia leggere un tale quadro di riferimento, di un indiscutibile successo. Quali siano le sue origini e le sue ragioni, si tratta di due elementi da indagare. Il governo Netanyahu-Gantz si era dato come obiettivo quello di contrastare la pandemia attraverso la diffusione del vaccino fin dai primi momenti in cui si era inteso che le aziende farmaceutiche avrebbero raggiunto, in tempi plausibilmente brevi, un tale risultato. Almeno 660 milioni di dollari sono quindi stati investiti per dotarsi di adeguati rifornimenti e di una riserva permanente. A gennaio, inoltre, Israele ha sottoscritto un accordo con Pfizer: in cambio di un approvvigionamento costante di fiale, in grado di garantire il raggiungimento dell’immunità di gregge, le autorità si sono impegnate a trasmettere in tempo reale i dati sull’andamento e gli effetti della campagna vaccinale. Il conseguente allarme delle organizzazioni per la protezione della privacy ha tuttavia obbligato il ministero della Salute a rendere pubblici i contenuti del contratto, benché alcuni passaggi siano rimasti ancora secretati. Il governo, per parte sua, ha assicurato che si tratta di statistiche pubbliche e dati anonimi aggregati, compresi alcuni riferimenti specifici sul braccio dell’inoculazione, l’età, il sesso, eventuali malattie pregresse.
Già a giugno del 2020 era peraltro stato firmato un contratto con Moderna, la seconda casa farmaceutica a ricevere, nel mese di novembre, l’approvazione della Food and Drug Administration statunitense per la produzione del suo vaccino, che utilizza la tecnologia mRNA, il cosiddetto RNA messaggero. Buona parte di queste dosi sono rimaste temporaneamente inutilizzate, venendo ora usate per immunizzare i circa 120mila lavoratori pendolari palestinesi. Sulla scia dei risultati israeliani, i premier di Austria, Danimarca, Repubblica Ceca e Ucraina si sono recati a Gerusalemme per cercare di stringere accordi a favore delle popolazioni dei loro paesi.
La metodologia di profilassi seguita non ha coinvolto direttamente, come invece molti credono, l’esercito che, piuttosto, ha proceduto a prendersi cura dei militari, fino ad arrivare a garantirgli la totale protezione vaccinale. Decisiva, nel caso della popolazione civile, è stata invece la partecipazione delle quattro assicurazioni sanitarie nazionali, che hanno provveduto ad istituire una rete capillare e ramificata di centri operativi, il più possibilmente slegati dai grandi nosocomi e dagli ambulatori degli ospedali. In quanto enti semi-privati, tra di loro in concorrenza, destinatari di sovvenzione pubbliche in rapporto al numero di assicurati, hanno potuto da subito garantire una logistica in grado di raggiungere il maggior numero di cittadini. Alle postazioni fisse si sono quindi aggiunte quelle mobili, capaci di spostarsi a seconda delle necessità del caso. Mano a mano che il grosso della popolazione veniva vaccinata, ci si è rivolti anche a quei segmenti della società meno propensi ad aderire alla campagna di profilassi, posizionando le postazioni in più punti di passaggio, come le aree commerciali, i mercati all’aperto, i luoghi di consumo. L’obiettivo è stato quello di rendere più accettabile l’assunzione del vaccino, abbinandolo all’omaggio di una qualche consumazione, come una birra o del cibo. Ad essere coinvolta nell’insieme delle operazioni è stata quindi un’ampia platea di operatori, dai medici territoriali fino ai volontari abilitati.
La sistematica digitalizzazione del sistema sanitario nazionale ha enormemente favorito l’elasticità e l’adattamento dell’intero circuito vaccinale alle esigenze del momento. Le informazioni rivolte alla popolazione, a partire dalle prenotazioni e dalle convocazioni per le inoculazioni, insieme all’appuntamento per il richiamo, sono avvenute attraverso i messaggi sui cellulari e gli smartphone. Con la popolazione più anziana, invece, si è fatto ricorso al telefono. Una campagna nazionale di sensibilizzazione, per cercare di convincere il maggiore numero di persone a presentarsi ai centri sanitari, ha accompagnato l’intera operazione, mobilitando autorità politiche, figure istituzionali e personaggi della vita pubblica, invitati a dare l’esempio alla collettività mostrandosi nel mentre si facevano vaccinare. L’ultimo passaggio è stato l’introduzione di un green pass, rilasciato a chi ha ultimato il ciclo dei richiami oppure è guarito dal Covid, con il quale il titolare può iniziare a partecipare ad eventi in presenza, accedere a luoghi pubblici, adoperarsi in attività sportive e così via.
Nel complesso, rispetto all’intera campagna vaccinale, sono stati fondamentali alcuni elementi. Il primo di essi è la gestione informatica del circuito delle prenotazioni, monitorando inoltre chi ha ricevuto il siero e chi invece no. In un tale quadro, il trattamento dei dati di coloro che non si sono vaccinati è un tema particolarmente critico, sul quale si è aperta una discussione rispetto al rapporto tra sicurezza collettiva e libertà individuale. Il secondo fattore è l’agilità operativa con la quale sono state gestite le dosi a disposizione, cercando a qualsiasi costo di evitarne lo spreco, con la convocazione in tempo reale di chi ancora non era stato vaccinato per usufruire delle fiale residue a fine giornata. Un terzo aspetto è lo sforzo collettivo per trasformare un evento di estrema complessità – la profilassi di un’intera popolazione – in un’iniziativa partecipata da tutta la società, incentivando la responsabilizzazione verso la propria ed altrui salute.
In un tale quadro si è inserita la vaccinazione dei palestinesi che lavorano sul territorio nazionale. La questione, in quest’ultimo caso, com’era prevedibile si è rivelata controversa e quindi materia di contrasti. Gerusalemme è stata accusata di volere praticare una politica dei due tempi, se non una vera e propria discriminazione nei confronti degli abitanti della Cisgiordania. Ma la salute di questi ultimi, se non sono cittadini israeliani, è di competenza dell’Autorità nazionale palestinese. La quale, a sua volta sta vivendo un conflitto interno a causa non solo delle pochissime dosi che è riuscita a procurarsi ma anche delle ripetute accuse, rivolte alla leadership, di non essersi curata di mettere in sicurezza le categorie più vulnerabili, favorendo invece i membri delle organizzazioni di governo. Malgrado il netto incremento di casi di contagio, triplicati negli ultimi due mesi, nessuna accelerazione è stata operata nella campagna vaccinale, fortemente impedita dalla mancanza di dosi. Anche la previsione, avanzata dall’Organizzazione mondiale della sanità, di un incremento di aiuti (sono in arrivo 37.440 dosi di Pfizer-BioNtech e 168mila di AstraZeneca attraverso l’iniziativa Covax) di per sé non potrà risultare in alcun modo risolutiva, posta la persistente asimmetria tra scarsità di fiale, numerosità della popolazione e discrezionalità nella somministrazione.
È comunque evidente, al netto delle tensioni che ancora una volta si registrano in area palestinese, che la campagna vaccinale israeliana costituisca uno strumento di soft power, da utilizzare negli scambi diplomatici. Non a caso, infatti, Benjamin Netanyahu, anche in previsione delle elezioni politiche che si terranno martedì 23 marzo, si è adoperato per incrementare i rapporti con quei paesi tendenzialmente disponibili a spostare la loro ambasciata a Gerusalemme, come nel caso del Niger, della Mauritania, dell’Honduras e del Guatemala. Tuttavia, l’iniziativa di proporre uno scambio tra vaccini e reciprocità politiche non è per nulla piaciuta ad altri esponenti del governo, a partire da Benny Gantz, che hanno accusato il premier uscente di volere speculare su beni di proprietà pubblica. Rimane il riscontro che l’organizzazione sanitaria israeliana sia riuscita a dimostrare una grande elasticità in un momento di estrema criticità. Gli errori di gestione commessi in una prima fase, durante il trattamento iniziale della pandemia, tra marzo e giugno dell’anno scorso, sono stati poi ovviati e superati dalla sistematica riorganizzazione delle procedure di profilassi, nel momento in cui, da tre mesi a questa parte, si è potuto procedere alla campagna di vaccinazione di massa.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.