Il “sapere raccontare” è una competenza che dalla storiografia e dalla letteratura è ora transitata, sia pure in forme e contenuti ben distinti, nell’universo delle produzioni di impronta televisiva
«Ho visto sia Fauda che Shtisel, conosco Israele!». Questa è la rivendicazione che un’incauta e presuntuosa, ma anche appassionata, interlocutrice ha recentemente fatto, a scena aperta, dinanzi ad un ampio pubblico, nel corso di un dibattito su temi mediorientali. Neanche è parsa sfiorata dal dubbio che per conoscere qualcosa, così come qualcuno, occorra, in qualche modo, l’averli frequentati in presenza, ossia in carne ed ossa. Al netto dell’intemperanza come tale, rimane tuttavia il fatto che sempre più spesso una parte crescente delle nostre società ritenga di conoscere, capire e quindi potere giudicare un qualsiasi oggetto non in base all’esperienza concreta che di esso va facendo bensì sulla scorta delle immagini, e quindi delle sue rappresentazioni, che circolano abitualmente. E qui entra in gioco un tema complesso: nell’età della conoscenza, dell’informazione, della globalizzazione delle comunicazioni, si ha un’identità non solo per come ci si vive quotidianamente ma anche per i modi e i criteri con i quali si viene raffigurati da coloro che ci osservano.
Il fuoco d’Israele, ossia la sua storia, le sue diverse identità, le anime e gli spiriti che la abitano, quindi il suo complesso pluralismo, è stato raccontato in molti modi. Si può parlare, al riguardo, di più stagioni succedutesi dal 1948 ad oggi. In un primo tempo, infatti, le vicende dello Stato e della società ebraica erano completamente schiacciate sulla cronaca. Quindi, sui resoconti giornalistici. Interni ed esterni. Dal 1948 fino alla prima metà degli anni Sessanta, in un’epoca tanto tumultuosa quanto ancora incerta – poiché il destino di un fragile Paese non era ancora stato definito una volta per sempre, affrontando semmai le inquietudini di un Medio Oriente più che mai in ebollizione già da allora – a fare premio su tutto non era una qualche forma di auto-narrazione rivolta al mondo ma l’attenzione che quest’ultimo gli riservava, soprattutto attraverso la scoperta giornalistica delle originali e irripetibili istituzioni israeliane, a partire dal kibbutz. Quest’ultimo aveva poi assunto una sorta di significato proverbiale, a volere dire che l’esperimento sionista portava con sé tratti del tutto inediti. D’altro canto, nel suo insieme Israele era ancora una società troppo giovane, per così dire quasi adolescente, da potere essere raccontata in un qualche formato che non fosse quello dell’immediatezza dello sguardo dell’osservatore più o meno estemporaneo. Arte, letteratura, i primi esercizi di espressione cinematografica, in sostanza la cultura che costruisce e restituisce una forma tanto condivisa quanto di lungo periodo ad eventi, protagonisti e situazioni, già da tempo erano andati radicandosi, ossia ben prima del 1948. Ma agli occhi del mondo intero ciò contava assai poco, anche perché la numerosità della popolazione era così contenuta e lo spazio sovrano così limitato da risultare poco rilevante dinanzi a contesti – si pensi ad esempio ai conflitti nel Sud-Est asiatico – di ben altre proporzioni.
Nella percezione dei tanti, in fondo, il racconto di Israele si schiacciava perlopiù sul tema della sua immediata sopravvivenza, piuttosto che sulle sue complesse dinamiche di esistenza nel tempo presente. Fu a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta che presero invece piede due grandi filoni di narrazione, tra di loro distinti ma, in qualche imprevedibile modo, anche intersecabili, che ebbero come tali un’eco crescente. Il primo di essi, di estrazione perlopiù accademica, rimandava a quel complesso di autori e temi che sono stati poi definiti come «nuova storiografia israeliana». Di fatto, nell’estrema varietà di approcci, a tratti anche nella reciproca conflittualità che essi esprimevano, il tratto comune di quella che non è stata una corrente omogenea di studiosi ma un criterio analitico con il quale rileggere la storia recente del Paese, manifestava il bisogno di prendere le distanze dalla storiografia più tradizionale, ovvero quella che aveva accompagnato i primi trent’anni di vita della nazione. Concretamente, l’attenzione che ben presto raccolse un tale modo di raccontare e raccontarsi, con spunti critici, al limite della polemica, catalizzò parte dell’attenzione della comunità internazionale. Non solo di quella degli studiosi ma anche della pubblicistica a più ampia diffusione. Ne derivò comunque la considerazione che Israele, tanto più nel suo rapporto problematico con la realtà palestinese e il mondo arabo, fosse un paese che si vive con grande intensità, molto spesso contraddittoria, comunque con una ricchezza inesauribile di stimoli.
Il secondo filone di racconto è stata la lunghissima stagione dei grandi autori della letteratura israeliana, quella autoctona, prodotto di una seconda generazione – e poi anche di una terza – che segue alla stagione iniziale che va dal 1948 alla fine degli anni Settanta (senza tenere in conto gli scrittori dell’yishuv, l’insediamento ebraico precedente alla nascita dello Stato). La forza e la potenza di fuoco delle innumerevoli parole generate da tali (nonché tanti) scrittori si è rivelata sorprendente, diventando un fenomeno a tratti quasi mondiale. A tutt’oggi la vena creativa è ben lontana dall’essersi esaurita. Senz’altro una chiave di tale fortuna, oltre ad una fertilità espressiva sorprendente, al netto dell’originaria ricchezza della letteratura dell’ebraismo diasporico, è stata la capacità di rendere con parole proprie, ossia rapportate alla specificità della condizione israeliana, un universo altrimenti collettivo di pensieri, idee, timori e speranze. La narrativa d’Israele mette il lettore a proprio agio poiché non ha alcun carattere particolarista, ovvero strettamente identitario: semmai cerca l’elemento dell’universalità in ogni singolo tema, in qualsiasi racconto, nello specifico di un argomento, a prescindere da quale sia quest’ultimo. Anche per una tale ragione, chi la legge ne rimane non solo coinvolto ma avvolto, in un processo a spirale, dove vede riflessi elementi significativi della sua esistenza. Poiché non può non specchiarsi nelle durissime, a tratti feroci, elegie della vita che le sue parole contengono.
Il racconto d’Israele sta proseguendo – integrandosi con ciò che già è offerto dal ricco deposito di rappresentazioni storiche, letterarie, pubblicistiche – oramai da quasi una decina d’anni a questa parte, con le serie televisive, che stanno conquistando l’immaginario di una crescente parte di spettatori. Per non pochi aspetti si può parlare di esse non solo come di un fenomeno che comunica immagini tra di loro coerenti, unite da un plot narrativo, da una ricerca stilistica, da una particolare attenzione a restituire comunque un quadro sufficientemente realistico di ciò che viene rappresentato. In quanto dietro a queste costruzioni, che ancora una volta rimandano ad una fertilità di raffigurazioni che ha eguali soprattutto con le proposte che arrivano dagli Stati Uniti e dai colossi mondiali della cinematografia, a partire dall’India, c’è una complessa intelaiatura autodescrittiva che rivela non solo la capacità di costruire trame ma anche l’esigenza di raccontarsi, quasi che negli episodi di una serie televisiva si riflettessero i capitoli di un’intera esistenza. Che si tratti della vita di un singolo come quella di una intera comunità.
Il “sapere raccontare” è quindi una competenza che dalla storiografia e dalla letteratura è ora transitata – sia pure in forme e contenuti ben distinti – nell’universo delle produzioni di impronta televisiva. Pensate, peraltro, anche per un pubblico sempre più spesso influenzato e ibridato dalle immagini del web, così come dai grandi network della comunicazione. Dove le sequenze (ma con esse anche i tempi dell’attenzione individuale), sono estremamente accelerate, radicalizzate, interattive, cumulate tra di loro. Riuscire a tenere il passo senza stancare ma, piuttosto, fidelizzando lo spettatore, è un elemento strategico nella fortuna delle serie televisive israeliane. Le quali, al pari dei prodotti di altri paesi, hanno un’ossatura basata sull’identificazione di caratteri specifici, di ambienti peculiari, di atteggiamenti definiti, di linguaggi a tratti quasi iniziatici, che costituiscono, passo dopo passo, una tradizione alla quale lo spettatore si sente sempre più spesso obbligato. Traducendo quindi una tale esigenza nella necessità di seguire episodio dopo episodio, per vedere «come va a finire», benché sappia fin dall’inizio che la forza di una serie televisiva riposa quasi sempre nella mancanza di una conclusione che non sia quella dettata dalle esigenze della produzione medesima, quando passa ad un altro soggetto. La fine, per così dire, sta già in ogni episodio. Anche se al termine di ogni episodio si ha la necessità di passare il prima possibile a quello successivo. Che si parli, beninteso, di una certa accezione del mondo ultra-ortodosso piuttosto che degli ambienti dei servizi segreti, questi ultimi spesso resi nei termini di un realismo raffigurativo che rasenta un freddo cinismo. Dove il vero conflitto non è tra «buoni» e «cattivi» ma tra l’intimismo di molti personaggi, verso il quale si riversa l’adesione affettiva, o comunque l’identificazione dello spettatore, e la spietatezza delle circostanze oggettive. Non è forse un caso che nell’intreccio di alcune serie la dimensione profana della quotidianità si incontri con il bisogno di profondità nelle relazioni dei protagonisti, quasi a ricalco dell’esperienza della vita di ognuno di noi stessi.
Come è già successo ripetutamente con la letteratura, nella finzione televisiva e filmica vi sono molti aspetti della realtà delle cose, magari frammischiati ad elementi di pura invenzione. Quei mondi altrimenti appartati, consegnati a se stessi, per molti aspetti imperturbabilmente esoterici e non infrequentemente avvertiti come alteri, e quindi potenzialmente anche minacciosi, si consegnano così ad uno sforzo di racconto plausibile. Si tratta di esistenze altrimenti estranee, verso le quali non sappiamo, in origine, non solo come comportarci ma neanche cosa concretamente pensare. Ovvero, in alternativa, di cui riteniamo di avere già una chiara e secca opinione, molto spesso di rifiuto. Il che, in questi casi, corrisponde in maniera speculare a non riuscire a farcene per davvero una fondata su qualche riscontro che non sia solo occasionale.
Ecco, ciò che piace delle serie televisive israeliane è anche il costante riferimento a quello che può essere definito come il rapporto tra «fronte e retro»: il fronte è ciò che sta dinanzi a noi tutti – in quanto parte visibile, percepibile, a volte idealizzata, più spesso temuta – di un qualche oggetto, di una situazione, di un insieme di relazioni, di un’istituzione, di un gruppo di persone; il retro è un universo di simboli, di comportamenti, di atteggiamenti che trasformano la visione di immagini nella scoperta di un’umanità tanto viva quanto contraddittoria. Comunque per nulla lineare. Così com’è, in fondo, la vita dello stesso spettatore. A tale riguardo, è poco utile – comunque non decisivo – interrogarsi su quanto ci sia di autentico in ciò che è rappresentato nelle serie televisive. Non si può ragionare con il bilancino. Poiché non conta il vero (ammesso che lo si possa rendere con immagini sufficientemente fedeli) mentre è senz’altro indispensabile interrogarsi sul verosimile, ossia ciò «che ha l’apparenza della verità e che perciò potrebbe essere vero»(come afferma il vocabolario Treccani). La realtà dell’immagine ha una dimensione sua propria che cerca riscontro nelle aspettative dell’immaginario collettivo. Nell’incontro tra l’una e l’altro si trova il vero punto di sintesi, ciò che permette di dire che una serie televisiva abbia una sua effettiva congruenza. Benché, ed è questo un altro elemento che meriterebbe una riflessione a sé, sempre più spesso molte persone si sentano indotte a credere che ciò che è raffigurato corrisponda comunque alla realtà effettiva in quanto tale. Come l’estrosa e bislacca interlocutrice, citata poche righe fa, in esordio di queste brevi riflessioni. Ciò che i più non capiscono è semmai che le rappresentazioni, essendo sempre il risultato di una trasposizione, esistono molto spesso a prescindere dal pieno riscontro dei fatti. In quanto ne sono una libera ma legittima ricostruzione. L’unica fedeltà che deve essere richiesta ad una serie televisiva, quindi, è quella allo stile che decide di adottare fin dalla prima puntata.
Anche per questa ragione il tema dello spionaggio, che chiama in causa il gioco tra visibile e invisibile, tra finzione e realtà, tra simulazione e dissimulazione, tra identità e doppio, tra dimensione fittizia ed esperienza verace, ma anche tra esistenza e sua ricostruzione, attraverso indizi e «spie» («nome di vari oggetti e dispositivi che consentono l’osservazione o la conoscenza di fatti o fenomeni non direttamente percepibili o disponibili», secondo la definizione dell’Oxford Languages), quindi sintomi e segnali, è uno degli elementi che meglio si prestano alle produzioni israeliane. Poiché in esse, più che riflettersi il pur rilevante know-how di una parte della stessa Israele, sul quale si è costruito letterariamente un vero e proprio castello di ipotesi e congetture, si proietta semmai il rapporto dell’ebraismo con aspetti della sua storia millenaria, laddove il principio di sopravvivenza si è snodato attraverso l’obbligata dialettica tra manifestazione e occultamento di se stessi.
Nel suo complesso, le serie televisive, che proseguiranno senz’altro nel tempo, hanno assunto oramai la natura di vero e proprio linguaggio a sé stante, capace di comunicare non solo impressioni e stili, emozioni e percetti ma anche idee e concetti. Sono comunque un modo di osservare la realtà, di raffigurarla, di rielaborarla. In Israele una tale competenza, che richiama un universo di saperi, estremamente raffinato e ricco, pieno di stimoli da raccogliere e trasmettere, è quanto di più vicino ci sia con l’esperienza che è stata fatta del mondo da parte dell’ebraismo. Non si tratta, come altrimenti si potrebbe troppo frettolosamente concludere, di un mero artificio intellettuale: semmai è lo specchio del modo in cui le società ebraiche affrontano non solo se stesse ma il loro “stare nel mondo” in quanto minoranza, prima raccontandoselo e poi parlandone a chiunque voglia ascoltare. In tutta la produzione culturale del Paese, d’altro canto, il bisogno vitalistico di affermare le ragioni della propria esistenza emerge da sempre come un segno inconfondibile. Il dilemma sull’«identità» è allora lo specchio non solo di una collettività ma dei nostri tempi, quelli di una modernità accelerata, che non so lascia fissare e impressionare da poche immagini. Le serie televisive israeliane, in fondo, ci ricordano che per vivere occorre molta immaginazione.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.