Il tributo all’eroismo dell’uomo della strada
It sounds Jewish… so già che qualcuno, dopo aver letto questo pezzo e ascoltato le musiche che propongo, dirà: “It sounds very, very American!”. Giusto, ma a volte fra le due categorie, l’ebraicità e la quintessenza di ciò che è americano, si creano convergenze profonde, naturali, interessanti.
Nel 1942 Eugene Goossens, direttore d’orchestra inglese, a quel tempo a capo della Cincinnati Symphony, ebbe l’idea di far precedere una buona parte se non tutti i concerti della stagione, da una fanfara; ovvero un pezzo breve, per trombe ed eventualmente anche altri ottoni, e percussioni, con una funzione di richiamo, cesura, annuncio. La fanfara è associata per solito a cerimonie solenni o a eventi militari. Durante la I Guerra Mondiale, Goossens commissionò in Inghilterra varie fanfare a musicisti inglesi per introdurre i concerti da lui diretti. L’idea piacque al pubblico: un richiamo patriottico, solenne, a significare tempi minacciosi per la Patria, e volto a ridestare sentimenti di fierezza. Goossens pensò di replicare l’idea in America. Si rivolse per primo, a quanto sembra, a Aaron Copland, nato nel 1900 a Brooklyn da genitori ebrei emigrati negli USA dalla Lituania e che si cambiarono il nome da Kaplan, troppo ovviamente ebraico, in un genericamente anglosassone Copland. Una dissimulazione non certo infrequente e che contrassegnò anche buona parte delle relazioni fra il compositore e le sue origini.
Copland accettò con entusiasmo. Ne nacque il pezzo, celeberrimo, che vi propongo qui sotto e che avrete certo sentito in innumerevoli film, soprattutto quelli con un piccolo grande uomo quale protagonista, e in contesti decisamente più pop (Emerson, Lake & Palmer ne fecero uno dei loro cavalli di battaglia in chiave rock, per non parlare delle tournée dei Rolling Stones del 1975 e del 1976, regolarmente aperte dalla Fanfare; e tantissimi altri casi ancora)
È semplicissimo, come si conviene ad una fanfara. Organico ristretto: timpani, grancassa, gong, tre trombe, tre tromboni, quattro corni, una tuba. E anche la struttura è elementare. Una cellula ritmica basata sulla scansione di un suono lungo accentato e due brevi non accentati, di tipo discendente (dattilo), per le percussioni; cui si contrappone il motivo degli ottoni, basato su una scansione opposta, due suoni brevi ed uno lungo accentato (anapesto). Quanto alla melodia, è anch’essa di estrema semplicità: ascendente e poi discendente, a formare un arco che ritorna al punto di partenza e procede per intervalli consonanti, senza alterazioni. Il richiamo, il segnale, si impone con le percussioni e crea uno spazio sospeso, dove il suono solenne degli ottoni ha qualcosa di lontano e molto presente, al tempo stesso. Ricorda quasi una cerimonia per un eroe caduto.
Copland sorprese il committente, chiamandola Fanfare for the Common Man, Fanfara per l’uomo comune o uomo della strada. Non un grande eroe, il soldato al fronte, il condottiero della Nazione. L’uomo della strada. Certo, proprio nel 1942 il vice presidente USA Henry Wallace aveva pronunciato un celebre discorso nel quale descrisse gli anni successivi al conflitto in corso come “l’inizio dell’era dell’uomo comune”. Wallace rappresentava l’anima più progressista, più impegnata socialmente dell’amministrazione Roosevelt. La sua famiglia del Mid-West era fortemente coinvolta in una corrente culturale e religiosa che vedeva nella Bibbia la base per una forte militanza a favore dei derelitti e per l’eliminazione delle disuguaglianze. E Copland, dal canto suo, fu sempre schierato a favore dei diritti civili, di quelli sociali, in difesa delle nazioni più deboli. Sosterrà anni più tardi che quello era il retaggio della sua educazione, e quindi, aggiungo io, indirettamente, del suo ebraismo.
Copland cominciava ad affermarsi proprio in quegli anni come il compositore americano più rilevante del periodo. Le sue opere più famose furono scritte proprio durante la II Guerra Mondiale. I balletti Rodeo e Appalachian Spring trattano temi americani per eccellenza: la frontiera, la vita famigliare, la sfida con la natura, il retaggio religioso protestante, presente anche nei materiali melodici e armonici adoperati. Il suo lavoro orchestrale più eseguito è anche di quegli anni, la Terza Sinfonia, il cui ultimo movimento è basato proprio sulla Fanfara per l’uomo della strada. È un’opera dove l’autore riassume i suoi interessi per le musiche autoctone americane alla base di tanti suoi lavori precedenti e li trasfigura nella forma colta europea per eccellenza. Un’opera in cui, per dirla con Leonard Bernstein, Aaron Copland mette in musica tutti gli accenti diversi che compongono il caleidoscopio umano chiamato USA.
Va bene, it sounds American… ma non Jewish, direte. E forse, per rafforzarvi in questa percezione, potrei dire che Copland non fece mai aperte professioni di ebraismo, né sul piano delle dichiarazioni verbali, né su quello delle sue espressioni musicali. Con la sola eccezione del Trio per violino, violoncello e pianoforte Vitebsk: Study on a Jewish Theme del 1929, in cui elabora un niggun chassidico ascoltato durante una rappresentazione del Dybbuk di An-sky. Copland volle sempre essere innanzitutto americano. Ma l’identità americana è plurale, multipla, complessa sotto il profilo etnico: può anche rientrarci il suo retaggio ebraico e yiddish, anche se in forma sublimata, come sosteneva Leonard Bernstein.
E così, a me piace pensare che, inconsciamente, nella decisione di scrivere una Fanfara per l’uomo della strada, Aaron Copland possa essersi fatto influenzare da un celebre detto della Mishnà, Pirqei Avoth (le Massime dei Padri): “Chi è l’eroe? Colui che sa superare se stesso”, ove il gioco di parole ebraico fra il sostantivo ghibor = eroe e il verbo lehitgaber = superare, sormontare è intraducibile. Del resto, fra le prime espressioni forti che aprono lo Shulchàn ‘Arukh, il codice halachico di riferimento, figura l’espressione “itgaber kearì la‘amòd babòqer”, “vincerà e sormonterà (l’uomo) la sua natura come un leone per alzarsi al mattino” e servire il suo Creatore. Ogni mattina si replica l’azione eroica di vincere i propri istinti e le proprie difficoltà, per elevarsi. Forse Itgaber è una delle più importanti parole chiave ebraiche. Esprime il senso di una separazione faticosa ed eroica dall’istinto e dagli ostacoli fisici e naturali, ed esprime anche un profondo ottimismo. Ogni persona che si alza tutte le mattine con entusiasmo per adempiere ai suoi doveri, è un eroe, deve essere un eroe.
Nel pieno della seconda intifada, quando ogni volta che si saliva su un autobus, si entrava in un ufficio, si andava a prendere un caffè o a pranzare, si rischiava di finire quale carne macinata in minuti pezzetti di materia organica, Rav Adin Steinsaltz si chiese chi fosse l’eroe; e rispose affermando che eroe era chi ogni giorno si recava al lavoro, apriva il proprio negozio, si ostinava a compiere il proprio dovere e a perpetuare la quotidianità semplice dell’esistenza. Ecco, mi piace pensare che il Common Man per il quale Aaron Copland scrisse la sua Fanfare, fosse esattamente questo genere di eroe. E, onestamente, non so pensare a nulla che suoni più Jewish di così.
Sempre molto interessanti questi argomenti. Dopo la lettura viene voglia di approfondire.