Regina Spektor: il gioco delle identità e ironia post post moderna
Gustav Mahler era solito dire di “essere un boemo fra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi, e ovunque, per tutti, soprattutto un ebreo”. Segno di quella identità molteplice che ogni ebreo ha in sé, e che oramai ogni persona al mondo contiene. Segno anche del trovarsi sempre a casa e sempre fuori posto in ogni luogo. Condizione esistenziale post moderna per eccellenza. Mahler riuscì ad esprimere in modo molto complesso e articolato quelle identità di cui parlava nella sua opera musicale. Ma anche e soprattutto quel perenne appartenere al contesto dato e guardarlo da fuori, con occhio straniato e critico. Credo sia soprattutto per questo che in molti lo sentiamo come un compagno di strada indispensabile.
Su un piano espressivo molto diverso, in un’altra era, anni 2000, arriva una ragazza dagli occhioni spalancati e azzurrissimi e dice candidamente, ma in realtà con sapiente ironia: “Nell’Unione Sovietica ero l’ebrea della scuola. Poi a New York alla scuola ebraica sono diventata la russa dell’istituto”. E, aggiungo io, c’è chi la percepisce come un’americana russa o un’ebrea americana, o un’ebrea russa americana, una femmina seducente o una donna ingenua o un enigma o tutto ciò insieme. La sua definizione di sé, sulla scena musicale e nei suoni che compone ed esegue, in realtà sono legati a un gioco, a un dialogo costante, spesso straniato, ironico, al quadrato, fra l’ambiente circostante e la definizione che questi le appioppa da un lato; e la sua creatività imprevedibile, secondo lei stessa perfino capricciosa, dall’altro. Regina Spektor nasce a Mosca da genitori ebrei, padre fotografo e madre insegnante di musica. A nove anni e poco più, la famiglia decide di approfittare delle aperture di Gorbaciov ed emigra negli USA. Una celebre battuta israeliana, valida anche in America, dice che “se vedi un russo scendere dall’aereo proveniente da Mosca senza uno strumento sotto braccio, vuol dire che è un pianista”. Ecco, Regina non si è potuta portare con sé l’amato Petrof verticale. Si esercita su qualunque cosa per mantenere le dita agili, fino a che non trova un piano semi abbandonato nel seminterrato di una sinagoga del Bronx. La formazione continua ad essere strettamente classica, anche se il padre le aveva fatto conoscere già in URSS i Beatles, i Queen, i Moody Blues, e la madre le icone del cantautorato russo, Vladimir Vissotsky e Bulat Okudzhava.
Regina ama cantare, da sempre, e sorprende i suoi compagni di viaggio in Israele di Nessiya, un’organizzazione ebraica americana, con una serie di improvvisazioni vocali non da poco, la voce che vaga liberamente fra gli estremi del suo registro di soprano, fino ad arrivare con scioltezza e naturalezza al falsetto. Nello stesso viaggio, scopre Joni Mitchell, ed è una folgorazione, una chiamata a realizzare la sua vocazione più autentica. Si diploma in pianoforte e in composizione, comincia a farsi conoscere nella scena alternativa dell’East Village di New York. 2006, secondo album, primo per una major: Begin to Hope. Signature song, Fidelity. Immagine raffinata, sguardo da sottile presa in giro, una Spektor glamour quanto mai, armonia semplicissima, melodia anche, ma il sound gioca con molti livelli. Una esplicita confessione di essere sempre dove il suo cuore non c’è, un cuore che poi, in semi falsetto, si spezza… Senso duplice o forse triplice, chi sa? Successo da diesel, lento all’inizio, poi guadagna forza ed impeto e diviene travolgente….
Regina Spektor continua imperterrita per la sua strada. Una strada dove le cose hanno un aspetto elementare, di base, ma non lo sono affatto. Ogni tanto suona anche in sinagoghe e in circoli ebraici. Pubblicamente però dice di essere ebrea solo grazie all’antisemitismo così radicato nella cultura russa. Sarà vero? Con lei, è difficile saperlo… Sia come sia, si moltiplicano i concerti, le partecipazioni a show televisivi, arriva anche la consacrazione del Saturday Night Show.
Uno dei pezzi più famosi della seconda metà degli anni 2005-10, è il suo Eet. Look glamour, nel mezzo del deserto, ma, confessa nel clip la Spektor, non riesce a ricordare i testi delle sue canzoni. In definitiva, lei ha sempre cantato da sola… ma cos’è che dimentica, giacché è lei a premere un improbabile tasto Eet sulla sua macchina da scrivere vintage, il tasto che cancella tutto?
Seguiranno poi l’apparizione ad un concerto tenutosi nella Casa Bianca di Barack e Michelle Obama, l’Emmy per una canzone che fa da sigla alla serie tv Orange is the New Black. E nel 2016 forse il suo album migliore, Remember Us to Life.
Ma uno dei suoi pezzi cui sono personalmente più legato è Samson, registrato più volte. Una personalissima lettura intimistica del personaggio biblico Sansone, visto dalla prospettiva della sua amante. Niente eroismi, niente grandiose azioni, l’eroismo è l’intimità dell’amore, con o senza capelli. Il testo biblico riletto quasi al contrario, nella necessità di far sentire anche il femminile, di sfidare le conclusioni note e ovvie di una storia saputa e risaputa. Tonalità si maggiore, il tempo in chiave si alterna fra i 4/4 e i 6/4, la voce che veleggia dal si della III ottava fino al re diesis della V.
Ma poi, c’è sempre la Regina Spektor senza giochi di immagine, di look, senza glamour con doppi e tripli messaggi, senza apparizioni video raffinate e multi strato. La musicista con la sua voce fuori dell’ordinario con il compagno della sua vita nel mondo dei suoni, il pianoforte. Spesso suona così, e ne viene fuori un’altra realtà ancora.
Un americano mi chiederebbe: qual è la bottom line, la conclusione, ciò che tiene tutto unito e legato? Forse la necessità di esprimersi e sfuggire alle classificazioni altrui o comunemente accettate. La capacità di mostrare che ogni testo, storia, canzone, insieme organizzato di suoni, clip video, possono essere letti in tanti modi. Forse il dire: siete sicuri che quello che vedete e sentite, sia così univoco? Il tutto con charme, arte, sapienza. Doesn’t it sound terribly Jewish?…
Musicologo, giornalista e saggista
Doesn’t it sound terribly Jewish? … maybe! The voice of a singer, if she is an artist, sound terribly herself. There are singers who all have the same vocal format. Listening to her voice she brought me back to a way of singing that I had already heard in some last generation English or American voices, but she has her own way that convinced me – I apologize for the bad ‘English-