Storia, sound e peculiarità delle Na‘arot Reines, la band di Tel Aviv che spopolava tra il 2009 e il 2013
L’estate, nel gergo giornalistico israeliano, è anche chiamata עונת המלפפונים, ‘Onat haMelafefonim, ovvero Stagione dei cetrioli. Nel senso che più che scrivere delle variazioni di prezzo dei medesimi e delle varie ricette che li vedono protagonisti, non c’è molto altro da fare. Per carità, i cetrioli sono un elemento fondamentale di ogni regime alimentare in un Paese caldo come Israele: minerali indispensabili, acqua a volontà, elettroliti che aiutano contro il caldo, apporto calorico pari a zero. Però, insomma, la dice lunga…
Io non ho intenzione di parlare di cetrioli, ovviamente, anche perché le nobilissime cucurbitacee dal punto di vista sonoro, non sono un granché. No, vorrei raccontarvi, oziosamente, di una band che imperversava a Tel Aviv fra il 2009 e il 2013 (di cosa le sia successo dopo, non so molto). נערות ריינס, Na‘arot Reines, Le ragazze di Reines (pronuncia Raines, alla tedesca). Reines è una strada che corre grossomodo parallela a Dizengoff nel centro di Tel Aviv, con alcuni begli esempi di architettura Bauhaus. Al contrario di Dizengoff, è poco glamour, riservata, silenziosa, e molto in ombra. La band è un classico trio rock modello The Cream, basso chitarra batteria. Protagonisti, Roi Freilich, chitarrista decisamente rock e cantante con un’impostazione molto originale; Gai Goldstein, bassista; Nir Wetstein, batterista (nella prima formazione, al suo posto Miki Coklewitch). Di Haifa, trasferitisi a Tel Aviv dopo il militare. Freilich lavora nel campo del cinema, Goldstein è un grafico. Dai cognomi, capirete subito che si tratta di ashkenaziti puri…
Insomma, perché ho scelto loro? Potrei rispondervi che, con il caldo feroce dell’estate 2019 al suo massimo, mi andava così e basta… e in parte, sarebbe vero. Ma solo in parte. Sì, fanno del buon rock, molto classico, citazioni di metal e di sound diversi, qualche spruzzata di punk versione gentile e calma, una lieve inclinazione al grottesco data dalla voce sempre sopra le righe e molto impostata di Roi Freilich. Testi normali, non particolarmente poetici, allusioni e sotto testi impliciti quasi inesistenti, dimensioni mistiche e qabalistiche assenti del tutto, echi e riverberi culturali particolari, non pervenuti. Ma allora, di nuovo perché? Intanto, ascoltate…
Forse perché il sound è normale e quasi normativo, piacevole, gradevole, e il contrasto tra la quotidianità del testo (“Spegni la televisione”) e la performance iperdrammatica creano un sottile spaesamento. Forse…
O forse perché, come nel pezzo successivo, il sound energetico, l’ironia al quadrato della voce e delle risonanze a mo’ di contrappunto rock alla melodia del basso, l’atmosfera intima, da festa fra amici della performance, creano quella sensazione, a me ben nota e ben cara, di Tel Aviv vibe….
E poi il nome… Ma chi sono le Ragazze di via Reines? Qui, bisogna andare indietro nel tempo. Al Dizionario dell’ebraico parlato dei mitici (per gli israeliani di una certa età) Dan Ben ‘Amotz e di Nechama Ben Yehuda. Un uomo di spettacolo al centro della bohème telavivica e una insegnante e linguista quantomeno poco convenzionale. Dunque, se a Dizengoff (secondo una di quelle iperboli tanto amate da chi cresce fra il mare e il fiumiciattolo HaYarqon, gli Champs Élisées della “Prima città di lingua ebraica”) vai a passeggiare tu, maschietto, con donne e ragazze da urlo per farti vedere e fare invidia, nella via semi parallela e un po’ in ombra, ci vai quando hai rimorchiato una bruttarella… Insomma, queste sono le Ragazze di via Reines, le ciospe… I tre rockettari in definitiva si vedono come le racchie di Dan Ben ‘Amotz… Il nome della band, è un’ironia che capiscono quelli che sanno e hanno memoria, e che sono compresi fra pochi chilometri quadrati… Non si dice sempre che la cultura ebraica è un po’ insulare? Ecco…
E allora, capisci che qui siamo nell’assoluta e un po’ elettrica normalità della conversazione culturale telavivica, che spesso, come tutte le conversazioni locali, si guarda l’ombelico. Lo chiariscono molto bene, per chi conosce l’ebraico, i due giganti o dinosauri della tv israeliana, Yaron London, giornalista e produttore televisivo eclettico, raffinato ma anche brutale, colto ma anche rozzo (quando vuole…), sorprendente quasi sempre, il Bernard Pivot della Broadcasting Authority e di Yedioth Aharonot, che assieme a Motti Kirschenbaum, direttore di quella Authority per molti anni, ingaggiano le Ragazze di via Reines nella loro trasmissione dal vivo delle 19 (la trasmissione non va più in onda per il semplice motivo che Motti Kirschenbaum, per la gioia di Netanyahu & Co., sta oggi in un posto irraggiungibile…). Ovviamente, alla israeliana, i due se ne dicono di tutti i colori, con allusioni anche pesanti, a tratti molto ironiche. Kirschenbaum dice che a Reines lui andava a parcheggiare quando voleva andare a Dizengoff. London gli replica che lui parla di un periodo in cui le macchine non c’erano, solo cammelli e asini (e apre la trasmissione proprio con un riferimento colto alla parola na‘arot – ragazze che però si potrebbe anche leggere come ne‘arot, ovvero ragli di asini…). London declama il testo e dice che non lo capisce. Kirschenbaum gli ricorda che fece lo stesso con un cantante di origine egiziana e che ne venne fuori un imbarazzo politico-etnico totale per la Broadcasting Authority cui lui, Kirschenbaum, dovette in qualche modo rimediare… Insomma, il solito salotto di Tel Aviv… Soprattutto quando i due dinosauri, senza alcuna vergogna, si pseudo rockettizzano, cantano stonati, si agitano in giacca e cravatta, e spesso non a tempo… Da vedere, una vera lezione di antropologia culturale sulla tribù che risiede a nord di Bat Yam e a sud di Herzliyah…
Se volessimo parlare seriamente, direi che, a parte il sound di mio assoluto gradimento, l’elettricità energetica della musica, la formazione del trio rock a me cara, come lo sono un po’ tutte le musiche a tre voci, i testi “normali” ma eseguiti in modo straniato e straniante, il mio amore per le Na‘arot Reines deriva dal loro essere il prodotto di un dialogo costante, di una conversazione ininterrotta, che è al centro dell’esperienza ebraica chiamata vivere a Tel Aviv. In fondo, questa è la cultura, qualunque cultura, alta o bassa, in qualunque luogo: una interazione continua, una chiacchiera ininterrotta che ingaggia tutti i suoi protagonisti e il mondo del quale fanno parte.
Visto il carattere altamente idiosincratico del mio contributo, non posso che concludere con un’ora della band in una performance dal vivo alla radio di quella che fu la mia università in Israele, l’IDC (non come studente, ma in qualità d’insegnante). Università che ha appunto anche una radio, come terreno di esercitazione per gli studenti della Facoltà di Comunicazione. Radio cui ho contribuito, fondandovi le trasmissioni di musica classica, poi giudicate dalla critica tra le migliori di Israele (non che ci fosse una così numerosa e agguerrita concorrenza…). Anche questo è molto telavivico: fare schwitz, e scusatemi, ma gloriarsi o vantarsi, traduzioni esatte, non rendono assolutamente il termine…
Non ne so nulla di cultura ebraica e faccio fatica ad ascoltare una certa musica tradizionale,ma imparo molto dai suoi articoli sempre molto ricchi di contenuti.
Forse anche questa è cultura,un bellissimo viaggio.
Grazie
Grazie a Lei!