“Lekhol Ish Yesh Shem” (Ogni uomo ha un nome): la canzone della dignità umana
Yom HaShoah ricorda le sue vittime e ogni sinagoga oggi legge i nomi dei deportati. Un gesto profondo e molto importante, capace di restituire a ogni individuo la propria identità. Il nome ha a che fare con la dignità inviolabile di ogni persona perché ne definisce la storia e ne rappresenta l’unicità. Così ci piace riproporvi oggi questo articolo di Massimo Acanfora Torrefranca su una canzone-simbolo: Lekhol Ish Yesh Shem (Ogni uomo ha un nome).
Nel 1975 Chava Alberstein, una delle voci più importanti della scena musicale israeliana, incide Lekhol Ish Yesh Shem (Ogni uomo ha un nome), musica di Chanan Yuval, testo di Zelda.
La musica è semplicissima, con poche modulazioni armoniche, una medesima frase musicale con poche e accattivanti variazioni, e si impenna solo nel ritornello; così il testo, una frase testuale ripetuta, che si apre sempre con le parole “Ogni persona ha un nome” e poi l’indicazione esplicita di due degli agenti che questo nome le hanno assegnato o le hanno creato:
Ogni persona ha un nome
che le ha dato Dio e che le hanno dato suo padre e sua madre
Ogni persona ha un nome
che le ha dato la sua statura, il carattere del suo sorriso e quel che indossa
Ogni persona ha un nome
che le hanno dato i monti e le pareti intorno
Ogni persona ha un nome
che le hanno dato le stelle e i vicini
Ogni persona ha un nome
che le hanno dato i suoi peccati e lo struggimento
Ogni persona ha un nome
che le hanno dato coloro che la odiano, e che le ha dato il suo amore
Ogni persona ha un nome
che le hanno dato le feste e il suo lavoro
Ogni persona ha un nome
che le hanno dato le stagioni e la sua cecità
Ogni persona ha un nome
Che le ha dato il mare e la sua morte.
Il pezzo ha un successo immediato e travolgente. La linea melodica ricorda molte canzoni israeliane mainstream del periodo, a metà fra l’ispirazione folk nordamericana e la perenne fascinazione per la musica popolare e soprattutto d’autore russa, stile Vladimir Vysotsky più che à la Liudmila Zykina. Nella sua semplicità, ovvero quella caratteristica o perfezione che nell’arte è assai difficile conseguire, enuclea alcuni principi base dell’ebraismo. La dignità intoccabile della persona: l’unicità assoluta della sua storia, del suo essere, della sua esperienza. Il testo si rifa esplicitamente ad un passo del Midràsh Tanchumà, Parashà (lettura settimanale della Torà) VaYàqhel (Shemòt o Libro dell’Esodo): “Tre nomi ha un uomo, quello che gli hanno dato suo padre e sua madre; quello con il quale lo chiamano gli altri uomini; e quello che ha conseguito per se stesso”.
È un testo che riassume molte delle caratteristiche salienti nella poesia di Zelda, ovvero Zelda Schneersohn Mishkovsky. La lingua semplice e diretta ma in realtà costruita di sostrati storici e mistici fortissimi con tutti i loro echi; la mancanza di rime e di strutture prefissate dei versi, che si appoggiano però su un formidabile controllo formale; lo stile al tempo stesso diretto, quotidiano, eppure allusivo. Gli echi mistici e religiosi non devono sorprendere: guardate bene il cognome originario, Schneersohn. Suo padre era un diretto discendente del terzo Rebbe di Lubavitch, suo cugino primo fu Menachem Mendel, l’ultimo, leggendario Rebbe. Era nata in Ucraina, emigrò in Eretz Israel nel 1925, fu per tutta la sua vita un’amatissima insegnante. Se ne volete un ritratto toccante, commovente, vivido, cercatela fra le pagine di Una storia di amore e di tenebra del suo allievo forse più famoso, Amos Oz. Per molti anni a casa sua a Gerusalemme entravano e uscivano poeti giovani e meno giovani, alla ricerca di ispirazione e conferme, di dialoghi in versi e di scambi profondi. Zelda declamava spesso in queste riunioni i suoi componimenti, recitandoli a memoria. Le ci volle molto a convincersi a pubblicarli. La sua prima raccolta, Pnai (Tempo libero) vide la luce nel 1967, quando Zelda aveva già 53 anni. Ebbe 17 riedizioni, fino al 2007. La sua poesia parla a tutti. È a lei che si ispirò con amore e ammirazione Yona Wallach, figura tragica e artista sublime della scena poetica israeliana, fino a che i rapporti fra le due non si interruppero a causa dell’uso, da parte della Wallach, in un suo componimento, dei Tefillìn quale oggetto d’ispirazione erotica.
LeKhol Ish Yesh Shem fa parte della seconda raccolta di Zelda, Al Tirchàq (Non allontanarti) del 1974. Fu la musica di Channan Yuval ma soprattutto la voce di Chava Alberstein a trasformare il testo in una icona della israelianità. Anche Chava Alberstein viene da lontano, dalla Polonia, dalla quale salì in Terra d’Israele. La voce fisica della Alberstein è un ibrido felice di chiarezza nell’emissione, di toni caldi e pastosi con un’estensione acuta di tutto rispetto, unita ad una tecnica impeccabile che la fa sentire a proprio perfetto agio anche a volumi molto ridotti. Figlia di superstiti della Shoà, Chava Alberstein è divenuta una voce (non solo fisica e vocale) coraggiosa. Ha riproposto la cultura musicale yiddish, sia popolare che d’autore, in un momento nel quale quella lingua godeva in Israele solo di pubblico disprezzo. E ha saputo prendere posizioni politiche scomode e fuori dal coro, al punto da meritarsi l’ostracismo a volte della radio di Stato.
Un pezzo iconico, dicevo. Sulla sua scia, le cerimonie pubbliche che si tengono in tutte le piazze d’Israele nel Giorno della Shoà volte a ricordare tutti coloro che sono periti in quel buco nero senza fondo, si chiamano LeKhol Ish Yesh Shem. I nazisti e i loro collaboratori in tutta Europa cercarono di cancellare completamente l’esistenza del popolo ebraico e la memoria della sua storia e presenza, cominciando proprio con il negare a ciascuno nome e storia individuale, riducendo ogni persona a Stück, a pezzo d’un ingranaggio industriale dotato di solo numero e null’altro. Nelle piazze e nei luoghi pubblici dello Stato degli ebrei tutti sono invitati a ricordare nomi, famiglie, storie, volti, personalità. Un Tiqùn collettivo gigantesco. Anche il progetto volto a ritrovare e tramandare la memoria di tutte le vittime della Shoà si chiama LeKhol Ish Yesh Shem. È una parte importante delle attività dello Yad VaShem, l’istituzione per la ricerca sulla Shoa e il suo ricordo.
Soprattutto, la canzone è un’affermazione piana e semplice d’una verità ebraica che dovrebbe essere ovvia a tutti e che invece purtroppo non lo è: ciascuno è dotato d’una altissima dignità, innata, e tale dignità non può essere né negoziata né tantomeno negata. La propria storia, la propria individualità, la propria identità. Comincia con un nome, che racchiude tutto.
Musicologo, giornalista e saggista