Le reazioni al film sul caso Dreyfus. Che parla di ieri ma anche di oggi. Perché chi è accusato non è automaticamente colpevole…
“L’ Affaire Dreyfus come l’Affaire Polanski? Come avevo già scritto qui su HuffPost, c’è un corto circuito dichiarato tra il magnifico film Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, in uscita il 21 novembre, e la gogna mediatica che da quarantun anni trova sempre nuove occasioni per crocifiggere un regista ormai ottantaseienne” Così scrive Teresa Marchesi su Huff Post a proposito dell’ultima pellicola d Polanski, J’accuse, un gran bel titolo tradotto non proprio felicemente in italiano L’ufficiale e la spia.
Un film che parla di ieri, ma anche di un presente fatto di rigurgiti d’odio e antisemtismo.
“Si avvertono i brividi inquietanti della contemporaneità fin da quando incontriamo in quella piazza d’armi del 1894 il capitano Alfred Dreyfus, tra i pochi ebrei presenti nell’esercito francese, degradato e condannato. «Ha la faccia da sarto ebreo che piange per l’oro che non ha più» è il commento di un ufficiale quando gli vengono tolti i gradi, «i romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli ebrei» commenta un altro”, scrive Silvana Silvestri su Il Manifesto.
Commenta poi Gabriele Niola su Wired.it: “Non è facile nemmeno iniziare a immaginare la fatica e lo sforzo richiesto per un simile livello di perfezione e costanza della messa in scena, per assicurarsi che ogni singola scena sia così curata e suoni come “quel mondo là”, non un Ottocento generico ma quello di questo film, unico e personale. L’Ottocento in cui gli ebrei erano disprezzati anche tra i ranghi più alti, un Ottocento fatto di topi di biblioteca e uffici in cui si decriptano messaggi con il vapore, in cui tutto è manuale e artigianale per un film analogico come pochi se ne possono concepire, una gioia per ogni appassionato di storie d’indagini, una festa per ogni appassionato di cinema”.
Fin qui i giudizi più che lusinghieri sul film. Ma quando si parla di un’opera di Polanski, inevitabilmente si rimette in moto l’ingranaggio mediatico legato a fatti ed accuse che nulla hanno a che vedere con il cinema e la sua arte.
“ll punto è che il chiasso in cronaca rischia di inquinare il godimento di un film perfetto. Perfetto: inutile scomodare altri aggettivi. E’ cinema come arte pura” sottolinea Marchesi.
Già, il chiasso in cronaca, come racconta Il Fatto Quotidiano, svelando l’esistenza di una grande difficoltà nel separare l’artista dall’opera.
“Manifestazioni di protesta fuori dai cinema di Parigi. Irruzioni dentro le sale con interruzione della proiezione come a Rennes. Una nuova accusa contro Roman Polanski per la violenza sessuale che l’ex attrice e fotografa Valentine Monnier sostiene di aver subito dal regista nel 1975. Il titolo del film che in ogni cartellone di protesta si trasforma da J’accuse in J’abuse” racconta Il Fatto Quotidiano, svelando l’esistenza di una grande difficoltà nel separare l’artista dall’opera.
A questo proposito, la moglie del regista, Emmanuelle Seigner che in J’accuse interpreta Valentine Monnier, ha dichiarato all’agenzia Agi: “Questo film resterà nella storia del cinema mentre il resto svanirà in dieci giorni. Per fortuna il pubblico sta dimostrando di essere più intelligente dei media, nei primi cinque giorni di uscita J’accuse è stato visto da 400 mila persone. E’ un film è importante perché cerca di dimostrare che chi è accusato non è automaticamente colpevole“.
Il caso Dreyfus in sintesi
Ufficiale francese di famiglia ebrea, Alfred Dreyfus, era addetto al comando del corpo di stato maggiore. Nel 1894 venne condannato per alto tradimento dal Consiglio di guerra, in seguito al ritrovamento di una missiva anonima indirizzata ai vertici militari tedeschi. Nella lettera veniva annunciato l’invio di cinque documenti militari relativi alla sicurezza nazionale. Per questo Dreyfus venne condannato alla deportazione a vita nell’isola del Diavolo. Il caso giudiziario divenne immediatamente un caso politico e nel 1906 Dreyfus fu reintegrato nell’esercito quando venne appurato che la calligrafia della missiva incriminata era in realtà del maggiore M.-Ch.-F. Walsin Esterhazy.