Intervista all’autrice in occasione dell’uscita italiana del suo ultimo romanzo, “Da grande”.
L’appuntamento è alle 10 del mattino in un caffè-libreria milanese. E al mio arrivo lei, Jami Attenberg, è già lì. Vestito nero estivo piuttosto scollato con stivaletti stringati ai piedi, rossetto e una bella massa di capelli a incorniciarle il viso, gironzola tra gli scaffali . Le offro una colazione, una spremuta, dell’acqua, un caffè: “Ho bevuto un espresso stamattina e mi sento due occhi così…”, mi dice ridendo e declina ogni genere di conforto. In Italia per varie presentazioni di Da grande, il suo settimo libro, arriva da New Orleans e soprattutto dai caffè americani.
“Ho amato molto il suo libro”, le dico, mentre cerco il registratore nella borsa, “principalmente perché è contro il conformismo”. Lo sa: quella che narra è la storia di una donna single newyorkese, Andrea, che cerca di farsi largo tra tutti i pregiudizi che la società americana ha eretto intorno a quella tipologia umana. E l’autrice la racconta facendosi largo, a sua volta, tra tutti gli stereotipi della letteratura alla Bridget Jones e chik-lit affini. Risultato: una sorta di vademecum dei grandi temi della società attuale, brillantemente affrontati in una serie di racconti brevi ad alto tasso di ironia (i capitoli del libro), concatenati tra loro a comporre il mosaico della vita della protagonista.
Ci sono però degli stereotipi nella costruzione del personaggio, o almeno elementi ricorrenti di una certa letteratura americana: New York, anzi Brooklyn, la psicoanalisi, l’essere ebrea, avere una qualche forma di dipendenza per sopportare il mal di vivere e una madre attivista.
“Non credo siano elementi di conformismo. La terapia mi sembrava un ottimo strumento per Andrea attraverso cui rivelarsi, la scelta di Brooklyn dipende dal fatto che la conosco molto bene (ho vissuto proprio in quelle strade) e l’insieme è la quintessenza della “newyorkesità.” Il legame con alcol e droga, in questo caso, deriva dal modo in cui Andrea è cresciuta: il padre muore di overdose e la madre comincia a dare feste su feste. Piuttosto, è conformista ciò da cui Andrea cerca di fuggire, cioè le aspettative che gli altri hanno verso di lei: trovare un uomo ed essere madre, principalmente, oppure fare carriera ossessivamente e allo stesso modo collezionare avventure con uomini di passaggio”.
E l’essere ebrea?
“Fa parte del mio background famigliare. Ma non è un tema che di per sé mi interessi particolarmente e questo è il motivo principale per cui non sento l’urgenza di scriverne. Spesso ci sono personaggi ebrei nei miei lavori e in verità ho scritto già il mio libro ebraico, qualche anno fa: i Middlestein. Un romanzo ebraico per ora può bastare…”.
Molto importante invece è l’essere donna e single della protagonista.
“Ho finito di scrivere questo libro poco prima delle elezioni di Trump e naturalmente ero molto coinvolta. Il candidato presidente si rivolgeva continuamente alle madri d’America… Mai una volta che avesse accennato alle donne single d’America!”.
In effetti in quella campagna elettorale la donna, anzi l’immagine che ne veniva data, ha avuto un ruolo particolare.
“Orribile. Il corpo delle donne, quasi una prigione… ma questo non c’entra con il libro”.
Beh, in un certo modo sì: Andrea ha un rapporto conflittuale con il suo corpo.
“Sì, è vero. Lo tratta male perché beve molto, detesta l’idea di fare figli e dal punto di vista sessuale pensa di esserne padrona, ma in realtà è solo quanto auspica”.
Qual è il ruolo degli scrittori nell’America attuale?
“Quello di sempre: raccontare le storie che abbiamo da raccontare. È importante: staccare dal caos, spegnere il computer e iniziare a scrivere”.
Come, spegnere il computer?
“Scrivo moltissimo a mano. Per me è necessario, perché quando si digita sulla tastiera si cerca subito di fare una cosa perfetta. Hai una voce, che non è la tua, ma quella di un programma, che ti corregge continuamente l’errore di battitura, la frase che non ha molto senso… Invece nella fase creativa è necessario commettere errori. Così scrivo a mano (e faccio anche lavorare una parte diversa del cervello)”.
E poi, come procede la stesura del libro?
“Questa volta avevo segnato gli argomenti di cui volevo parlare, come in una scaletta che ho seguito così precisamente da avere in testa tutti i capitoli a seconda del tema. Ma è la prima volta che lo faccio. In ogni libro voglio essere diversa dal precedente, stilisticamente, contenutisticamente e nel metodo. Non voglio annoiarmi e men che meno annoiare”.
Però un tratto comune nei suoi lavori c’è: le protagoniste sono sempre donne.
“Sono molto più interessanti, hanno più cose da fare in questo mondo, sono più forti e complicate. Non che non mi piacciano gli uomini, sono dei buoni amici e ho un ragazzo che mi interessa molto…”.
Cos’è l’amore?
“Per Andrea, è soprattutto quello famigliare e amicale. E alla fine del libro ammette quanto gli altri siano importanti per lei e quanto abbia bisogno d’amore”.
Grazie di averci riportato al libro. Dunque questa ammissione fa parte del diventare grandi?
“Questo lo scriva nel suo libro: io non sono d’accordo”.
E cosa significa diventare grandi?
“Essere responsabili e sapere cosa c’è dietro ciò che si fa. Tutti arriviamo allo stesso punto, alla fine: cerchiamo di capire come fare a essere adulti, anzi, come fare a essere. Semplicemente”.
Jami Attenberg, Da grande, Giuntina, pp. 160, 15 euro.
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.