Spiazzare il pubblico è la sua cifra, inventare musica la sua arte e mixare generi la sua tecnica. Storia di un artista fuori dagli schemi
La sua arte non ha confini semplicemente perché per lui, in musica, i confini non esistono. Lo dicono le centinaia di album che portano la sua firma, quella di un compositore-sassofonista alieno alle regole e alle convenzioni. John Zorn (classe 1953) è un alchimista del suono immerso profondamente nella cultura ebraica newyorkese, capace di affrontare e stravolgere come nessun altro tutti i linguaggi musicali: dalle colonne sonore al jazz, agli esperimenti nel segno dell’heavy metal più estremo, passando per l’utilizzo seriale delle scale sefardite e la rielaborazione delle composizioni di Ennio Morricone. Del suo anticonformismo parlano anche le decine di dischi che ha pubblicato con la sua etichetta discografica personale, la Tzadik, diventata, come ricorda lui stesso “la casa di tutti quei musicisti che non avrebbero mai trovato spazio nella discografia tradizionale”. Tra le perle, l’album omonimo dei Guerrilla Toss, un quintetto da Boston che fa dell’improvvisazione il suo centro di gravità permanente.
Zorn è sinonimo di improvvisazione e avanguardia, i due concetti che costituiscono le fondamenta della Radical Jewish Culture, un movimento musicale fondato da lui e da un manipolo di musicisti, il concept di una nuova rivoluzionaria idea di Jewish Music, un inedito universo sonoro che non punta alla rielaborazione del passato, ma ad una nuova fusione tra klezmer e free jazz con incursioni sporadiche nei versanti estremi del rock and roll. Comprendere in profondità l’arte di John Zorn significa addentrarsi nel dedalo di frammenti sonori (613 in totale) che compongono il monumentale progetto Masada-The Book of Angels, una colossale opera che trae linfa dalla musica ebraica, rielaborata e reinterpretata ad opera di decine di artisti delle più diverse estrazioni (tra gi altri Pat Metheny e il jazzista americano Uri Caine).
Zorn, dalla fine degli anni settanta ad oggi, è un unicum nel panorama della musica mondiale. Il suo approccio alla composizione è da sempre destrutturante. Lui non rassicura l’ascoltatore, lo spiazza, lo disorienta. Come un vero genio del pentagramma, capace di rileggere la musica di Ornette Coleman in chiave hardcore punk (Spy Vs. Spy: The Music of Ornette Coleman) o di incidere un disco epocale come Kristallnacht un viaggio claustrofobico e senza speranza nelle pieghe della Notte dei cristalli (9 novembre 1938), una discesa negli inferi del feroce delirio nazista dove i suoni di trombe, chitarre e violini affogano nell’assordante crepitio dei vetri che vanno in frantumi. La colonna sonora della tragedia. L’ultimo disco, The Urmuz Epigrams, è un mix inestricabile tra Stockhausen e la poliritmia africana.