Cosa succede a un’esposizione se rimane ferma per un anno? Che significato assumono le sue opere e come si trasformano? Doppia lettura della Biennale di Tel Aviv
250 artisti e oltre un migliaio di opere: questo il risultato di un anno e mezzo di lavoro di ricerca e selezione, da parte di un team di cinque curatori, tra gli oltre 3000 progetti presentati. Quando lo scorso marzo si sarebbe dovuta aprire The Tel Aviv Biennale of Crafts and Design 2020, presso il MUSA-Museo Eretz Israel di Tel Aviv, nessuno si sarebbe mai immaginato che l’inaugurazione sarebbe stata rimandata per mesi, a causa dell’insorgere della pandemia.
Da allora l’esibizione è stata aperta e chiusa a singhiozzi, a seconda delle normative dettate dall’emergenza sanitaria, entrando ed uscendo ogni volta da una sorta di “coma artistico”, come lo definisce Nir Harmat, uno dei curatori. A distanza di un anno da quella che doveva essere l’apertura ufficiale, i giorni di chiusura hanno di gran lunga superato quelli di apertura, tanto da aver posticipato la chiusura della mostra al mese di maggio di questo 2021.
Ma il tempo non passa mai invano: le opere esposte sono sempre le stesse, eppure qualcosa, dal suo concepimento originale, è cambiato, e non soltanto nelle installazioni open air, che hanno inevitabilmente subito le conseguenze del tempo, anche meteorologico. Ció che è mutato, più di tutto, è il significato di molti lavori agli occhi dei visitatori, in virtù delle inevitabili riflessioni che ha portato la pandemia in tutto il mondo e, nel caso qui specifico, in Israele.
La Biennale di Tel Aviv è un progetto del tutto innovativo, volto a rompere i confini tra arte, design, moda, e dei suoi prodotti intesi come manufatti artistici, attraverso un processo di ibridazione dell’ opera d’arte e dei suoi media, mostrando in questo modo uno spaccato sull’arte arte contemporanea israeliana, per la prima volta esposta in una Biennale in Israele.
First Body – Second Nature: il titolo della Biennale, concepita dalla Chief Curator del Museo, Debby Herschman, era stato formulato per esplorare lo spazio, il gap, tra creatore e creazione, descrivendo l’atto artistico come una “seconda natura”, in cui l’artista cerca di dominare la natura per creare l’opera d’arte. Ma alla luce della nuova realtà imposta dalla pandemia, come afferma Harmat, “ora la natura sembra essersi impossessata degli oggetti, e persino del museo stesso, che, per via della sua struttura (quindici padiglioni disseminati in un parco di oltre 20 acri) dopo mesi di chiusura si è presentato al pubblico con una pelle diversa. Improvvisamente alcuni dei lavori esposti appaiono come una premonizione di quello che sarebbe potuto accadere”.
Come l’installazione di Asher Elharar Lettura di avvertimento, che spinge ad esaminare l’impatto umano sull’ambiente. Con un inquietante gioco di contrasti, un panda in legno a grandezza naturale viene fatto respirare da una maschera ad ossigeno. La struttura, costruita in materiale organico come l’ambiente da cui proviene l’animale, resta in vita solo grazie ad un oggetto inventato dall’essere umano, di materiale plastico Made in Cina, proprio come il Paese da cui proviene la specie animale rappresentata.
Quest’opera è solo una, tra le tante, che criticano non tanto la Cina (da cui probabilmente proviene il virus che oggi ci accomuna e ci unisce in tutto il mondo) ma il modello consumista che essa rappresenta e che caratterizza la nostra societá contemporanea, inclusa quella israeliana.
Con questo approccio critico si collocano molti dei lavori site specific, esposti in pieno contrasto con le collezioni permanenti del Museo “Eretz Israel”, ovvero della “Terra di Israele”, fondato a Tel Aviv nel 1959. L’intezione curatoriale di questa Biennale, infatti, sta proprio nel provocare un dialogo tra arte antica e reperti archeologici con l’arte contemporanea in tutte le sue declinazioni: dall’arte plastica alla fotografia, dalla moda al design, dalle installazioni alla videoart.
Tra questi esperimenti di ibridazione si colloca anche Sweet Rose di Hila Amram, che espone la sua opera nel Padiglione del Vetro, in una teca, accanto ad eleganti contenitori di vetro islamici, un tempo utilizzati per conservare l’acqua di rose. In questo fragile contesto, barattoli di sapone liquido e palline di plastica rosa costruiti in tecnologia 3D, sembrano assumere il ruolo di birilli e palle da bowling, pronti a frantumare manufatti archeologici di un museo che affonda le sue radici nel periodo biblico. Questa sovrapposizione tra la storia millenaria del Paese e l’oggettistica del museo, con prodotti in plastica Made in Cina, sembra sollevare nuovi interrogativi sulla cultura dell’abbondanza e del consumo, e tutte le sue implicazioni sociali e culturali.
Allo stesso modo, nell’installazione apocalittica Guilt, Yaniv Amar ci ricorda come il consumarsi del tempo presente stia giá diventando parte di un passato remoto, come la dozzina di tubi di cemento, dalla superficie scrostata, che giacciono sul pavimento del museo, come macerie. Amar ha creato quest’opera utilizzando materiali raccolti nell’area museale stessa, collocata sulle colline di Ramat Aviv (oggi uno dei quartieri più ricchi di Tel Aviv), un tempo terreno del popolo ebraico, poi del popolo palestinese, in seguito dell’Impero turco, del Mandato britannico, fino a diventare, nel 1948, Stato di Israele. Da questo luogo millenario l’artista ha raccolto terra, pietre, condutture fognarie e detriti, assemblati con immagini ispirate a mosaici e contenitori antichi, come quelli esposti nel museo, per mettere in dialogo passato e presente di una storia cosí complessa, creando “fossili contemporanei” di plastica e rifiuti elettronici, promemoria delle possibili conseguenze e responsabilità della nostra societá, in cui, in un attimo, tutto ciò che diamo come certo potrebbe estinguersi, diventando una silenziosa testimonianza di un futuro distopico.
Il dialogo tra passato e futuro viene messo in risalto anche in una delle installazioni open air di Avner Sher, architetto di formazione, nel lavoro Skyline: una riproduzione di profili di grattacieli con reticolati di ferro, consumati dalla ruggine nel corso di questo lungo anno. Il materiale che li costituisce, intrecciandosi, crea i pattern della stella di David, della croce cristiana e della mezzaluna islamica: le tre religioni monoteiste convivono da migliaia di anni in questo Paese e nel loro intrecciarsi si scorge la vista mozzafiato sul paesaggio urbano contemporaneo di Tel Aviv.
La questione dell’appartenenza religiosa è per altro uno dei fili conduttori nella scelta curatoriale della Biennale, che ha dato spazio alle diverse fedi, assieme alla questione di genere e di generazione, con un ventaglio di artisti tra i 18 e gli 82 anni.
Fra tutti, forse, chi meglio esprime questo approccio trasversale e universale è Murjan Abo Deba che, vestita con abiti tradizionali del suo villaggio arabo della Galilea, nella sua videoart Untitled si cimenta nella missione impossibile di pulire la spiaggia dall’acqua del mare: un lavoro “invisibile” e senza sosta, come quello delle donne, di tutto il mondo.
Questo mese in Israele, grazie all’avanzamento dei vaccini, che ormai hanno coperto oltre il 50% della popolazione eleggibile, il MUSA riapre finalmente le sue porte e fino a Maggio, con questa Biennale, offre un incredibile spaccato sul Paese, affidando alla creazione artistica il compito di raccontarlo, in tutte le sue sfaccettature.