Al di fuori degli impieghi bellici, la Brigata ebraica svolse molte funzioni, provvedendo al sostegno della popolazione ebraica sopravvissuta all’occupazione nazifascista
La milizia armata ebraica nella Palestina sotto il mandato britannico (ufficializzato nel 1923 e conclusosi nel 1948), fu parte integrante del processo di edificazione dell’Yishuv, la comunità politica che nel 1948 si sarebbe poi trasformata in Stato d’Israele. Già dai primi insediamenti sionisti della fine dell’Ottocento, d’altro canto, il nesso tra lavoro e difesa era divenuto elemento imprescindibile nelle dinamiche di costruzione di una società ebraica nazionale. Il rapporto con il monopolio della forza, uno degli attributi fondamentali della sovranità dello Stato, andava infatti configurandosi di pari passo alla trasformazione dei singoli stanziamenti ebraici, presenti nella Palestina mandataria, in una rete ramificata sul territorio, destinata per l’appunto ad assumerne non solo il controllo materiale ma anche ad esercitarvi, a guerra d’Indipendenza conclusa, una sovranità legale e legittima, sancita dalla nascita dello Stato ebraico.
È in questo quadro di più ampio respiro che vanno quindi ricondotte le complesse vicende che oggi ricordiamo come manifestazione della presenza della «Brigata ebraica», espressione con la quale si indica, al medesimo tempo, una specifica unità combattente – parte dell’Her Majesty’s Armed Forces («Forze Armate di Sua Maestà») o Armed Forces of the Crown («Forze Armate della Corona»), piu prosaicamente British Armed Forces – sia gli eventi e le storie ad essa si riconnettono nel periodo di tempo che va dalla Seconda guerra mondiale alla nascita d’Israele. La sua storia, infatti, è molto più complessa di quanto certe letture frettolose vorrebbero lasciare intendere. Così come la sua funzione non è circoscrivibile ai soli combattimenti ai quali pur prese parte, al pari delle più ampie operazioni alleate nelle quali venne chiamata in causa, ma a quello strategico lasso di tempo che va dal 1945 al 1948, quando la più parte dell’immigrazione ebraica nella declinante Palestina britannica era legalmente interdetta, al netto dei piccoli contingenti di migranti ai quali era invece concesso, con il contagocce, il visto di ingresso.
Più in generale, le questioni di fondo che vengono evocate in merito demandano non solo al contributo dell’ebraismo palestinese alla causa degli Alleati durante la guerra ma alla costituzione di una precisa idea di nazione indipendente (e come tale armata nonché autosufficiente nella sua difesa); alla contrapposizione rispetto ad una parte del mondo arabo, assai più attratto dalla presenza nazifascista, se non altro attribuendo a quest’ultima una funzione anticoloniale e quindi antibritannnica; alla formazione e al rodaggio di un’attività di intelligence, fortemente legata all’uso della Brigata in iniziative osteggiate dal Regno Unito (ancora una volta l’organizzazione dell’immigrazione illegale attraverso l’Europa centro-meridionale, passando per l’Italia); alla ricerca e alla punizione di una parte dei colpevoli della Shoah; alla ricostruzione di una vita comunitaria ebraica in Italia, durante e dopo la Liberazione.
Agire, migrare e combattere. La Brigata ebraica nella storia del Novecento europeo e mediterraneo
La storia, quindi, segue un percorso lungo e abbastanza tortuoso. Inizia nel 1940, quando giovani ebrei ed arabi, in età di leva e residenti nei territori mandatari, furono arruolati in distinte compagnie di fanteria (i «Buffs»), inquadrate nel Royal East Kent Regiment. La prima compagnia di fanteria ebraica divenne operativa nell’autunno del 1940. Ad essa ne sarebbero poi seguite un’altra dozzina, per un totale di 5.300 coscritti. La loro funzione, nel quadro generale della campagna bellica del Nordafrica (durata dal giugno del 1940 fino al maggio del 1943, con la sconfitta totale dei tedeschi e degli italiani) era quella di fungere da supporto e presidio delle installazioni britanniche, così come alla scorta dei convogli terrestri. Sia l’addestramento che l’equipaggiamento furono offerti dai comandi militari con calcolata oculatezza se non esasperante parsimonia, cercando di assegnare a tali reparti una funzione meramente sussidiaria. Tuttavia, già alla fine del 1939 il gabinetto di guerra britannico aveva deciso di dare corpo ad un reggimento palestinese indipendente, ossia non incorporato all’interno di unità preesistenti. In quei mesi, la guarnigione britannica nella Palestina mandataria poteva contare su una dozzina di battaglioni di fanteria e in un paio di reggimenti di cavalleria. Una forza sufficiente per concorrere all’ordine pubblico. Con il progredire della guerra in Nordafrica, tuttavia, il rischio che i tedeschi potessero varcare Suez, tentando di ricongiungersi con le truppe che operavano su altri fronti di combattimento, si fece concreto in più di un’occasione. Inoltre Londra era contemporaneamente impegnata in molti scenari di conflitto. La necessità di dotarsi di nuovi reparti si fece quindi sempre più stringente, per cercare di dotarsi di materiali e uomini capaci di tamponare le situazioni di continua emergenza che andavano ripetendosi.
Nella Palestina mandataria, dopo la sollevazione araba del 1936, che aveva prodotto numerosi tumulti e scontri tra civili delle due comunità, il reclutamento nei Corpi dei pioneri militari ausiliari, utilizzati essenzialmente in funzione di polizia così come di controllo del territorio, era riuscito a raggiungere risultati discreti, soprattutto grazie alla partecipazione ebraica. Con la guerra, Chaim Weizmann, presidente dell’Agenzia ebraica, l’organismo di coordinamento tra la comunità politica sionista e la potenza mandataria, offrì quindi la disponibilità per parte ebraica nel concorrere attivamente allo sforzo bellico britannico. Era una torsione rispetto ai difficili rapporti con Londra, che aveva invece adottato una politica restrittiva rispetto all’immigrazione ebraica (oramai composta quasi esclusivamente da ebrei che fuggivano dall’Europa nazificata). Dal punto di vista dell’insediamento ebraico, si trattava d’altro canto di una questione di vita o di morte, poiché l’eventualità che le truppe del Deutsches Afrikakorps di Erwin Rommel potessero sfondare le linee di difesa britanniche, penetrando nel Sinai e poi dilagando nelle regioni settentrionali, avrebbe comportato la distruzione certa della comunità ebraica palestinese, allora composta da circa mezzo milioni di individui.
L’ipotesi iniziale di Weizmann, ossia quella di istituire delle unità ebraiche combattenti, fu immediatamente rifiutata dagli inglesi. Non intendevano infatti utilizzare dei reparti omogenei, composti da personale militare appartenente ad un territorio mandatario che andava già da tempo rivendicando l’indipendenza dalla potenza coloniale. Londra tuttavià autorizzò l’inquadramento di «volontari palestinesi» nei servizi ausiliari dei Royal Army Service Corps (Rasc) e dei Pioneer Corps, a condizione che il numero di arabi corrispondesse al numero di ebrei inquadrativi. L’Agenzia ebraica, l’unico organismo politico e territoriale in grado di svolgere tale funzione, garantì l’assolvimento di questa clausola reclutando manodopera araba, soprattutto tra la popolazione maschile disoccupata. L’unico modo per ottenerne l’assenso, essendo altrimenti perlopiù refrattaria a svolgere un tale servizio, era quello di promettere una contropartita economica. In realtà, la composizione delle unità non combattenti si rivelò da subito squilibrata a favore della componente ebraica, maggiormente motivata alla milizia, nella prospettiva di poter andare prima o poi al fronte con un qualche ruolo attivo. Le diserzioni da parte araba, invece, si ripeterono con costanza. Sospetto e demotivazione accompagnavo questi ultimi: sospetto verso gli inglesi, demotivaziona riguardo agli impegni da assolvere. I volontari erano in maggioranza inquadrati nelle compagnie dei mulattieri e per le operazioni portuali, svolgendo quindi attività di supporto e collegamento nelle retrovie per lil resto delle truppe, invece impegnate in prima linea. Il concetto era chiaro: ebrei ed arabi potevano avere un qualche ruolo ma a patto che non fossero combattenti. Dal 1942 altre compagnie miste furono costituite. Tra di esse la Sesta unità ausiliaria delle Rasc, composta da donne ebree. Il passaggio successivo fu l’uso di nove compagnie per la guardia dei prigionieri di guerra tedeschi ed italiani nei campi di internamento presenti in Egitto.
Nel 1942, quindi, fu costituito un «Palestine Regiment», che avrebbe operato fino al 1944, composto di personale ebraico (1.600 elementi) ed arabo (1.200 uomini), integralmente coscritto su base volontaria nei territori del mandato britannico ed organizzato in battaglioni separati in base al gruppo “etnolinguistico” di appartenenza. Tra di loro vi erano tecnici specializzati come i genieri, i cartografi, gli autotrasportatori, gli esperti di comunicazioni. Ancora una volta, le richieste di arruolamento furono molto più numerose tra gli ebrei che non tra gli arabi, raggiungendo un rapporto di tre ad uno. Non a caso l’unità fu ridefinita il «reggimento delle cinque piastre», volendo con ciò indicare il fatto che la presenza araba era motiva soprattutto da ragioni di necessità economica (soddisfatte da parte della stessa Agenzia ebraica, che provvedeva al pagamento del soldo ai mobilitati). La scelta britannica fu tuttavia quella di non avvalersi di tutte le risorse umane disponibili. Ciò per un preciso calcolo politico, che intendeva non offrire alle due parti in campo un addestramento militare e una capacità operativa che, in altro scenario, avrebbe potuto ritorcersi contro gli stessi interessi della potenza mandataria. Operativamente, questo reparto, limitato quindi a modeste dimensioni, non superando nel complesso le tremila unità, fu dislocato nello scenario di combattimento dei territori egiziani e cirenaici, assolvendo perlopiù a funzioni di presidio.
Il comando britannico necessitava di truppe di rincalzo, che potessero accompagnarsi, e all’occorrenza sostituirsi, a quelle “autoctone” ma, rispetto ai giovani ebrei ed arabi, continuava a nutrire perplessità sulla loro effettiva utilizzabilità operativa, ben sapendo che tra i due gruppi era in corso una contrapposizione sul destino delle terre mandatarie dalle quali arrivavano. Alcuni dei membri del reggimento furono tuttavia coinvolti nei combattimenti contro i tedeschi, a Bengasi, perendo con le armi in mano. Nell’agosto del 1943, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, arrivò una piccola compagnia di cartografi, la 20ma Map Depot. Successivamente, altre unità minori furono inviate in Italia. A Salerno fu stanziato un distaccamento della 148ma compagnia autocisterne, alla quale seguirono le compagnie 650ma, 179ma, 460ma e 462ma autotrasporti. Quest’ultima, durante un bombardamento tedesco, perse in mare metà dei suoi componenti. Nello stesso autunno arrivò anche una compagnia di genieri ebrei, la 739ma. Nel Sud d’Italia gli ebrei arruolati nell’esercito britannico iniziarono a prendere cognizione della situazione dei loro correligionari, nel frattempo liberati dai campi di internamento che il regime fascista aveva istituito in quelle regioni, a partire da Ferramonti di Tarsia, nel cosentino. Contemporaneamente avviarono alcune azioni di soccorso nei confronti degli ebrei provenienti dalla Yugoslavia. A Taranto, nel mentre, arrivava la 1ma compagnia Camouflage, già distintasi nella strategica battaglia di El Alamein, dove aveva costruito finte installazioni per ingannare i tedeschi, e poi la 178ma compagnia autotrasporti. Nel complesso, queste unità – che non erano combattenti poiché gli inglesi continuavano ad interdirne l’utilizzo in prima linea per una precisa scelta politica – nel febbraio del 1944 si adoperano per il sostegno dello sbarco alleato ad Anzio. Nel mentre, a Bari, alcuni loro uomini avevano già contribuito a rendere operativo un centro di soccorso per i 4mila profughi ebrei presenti nell’Italia meridionale. Il centro, una volta liberata Roma, il 4 giugno 1944, vi sarebbe stato trasferito.
Intanto, dal luglio del 1944, dopo una formale decisione assunta in tal senso del governo di Londra, le compagnie ebraiche che avevano costituito il Reggimento palestinese divennero in parte l’ossatura per la formazione della «Jewish Infantry Brigade Group», corpo militare autonomo, composto perlopiù di ebrei della Palestina mandataria (ma anche provenienti da altri possedimenti britannici così come, successivamente, da alcuni militari ebrei di origine russa, polacca e dell’Europa orientale) e impegnati – questa volta – come unità combattente, nelle operazioni militari britanniche in Italia (ed in subordine in Austria). Dell’originario Reggimento palestinese, benché tutte le sue compagnie avessero fatto domanda di entrare nella nuova unità, furono accettate solo la 178ma, la 460ma e la 743ma genieri. La nascita di questa unità di prima linea fu peraltro il risultato di una lunga e defatigante trattativa tra il governo inglese e le autorità ebraiche della Palestina mandataria. Le seconde spingevano per un coinvolgimento il più ampio possibile dei giovani ebrei mentre le prime cercavano di vincolarne rigorosamente il reclutamento. Gli inglesi imposero che gli ufficiali di grado superiore non fossero ebrei, o comunque di origine “palestinese”, mentre invece permisero l’uso delle insegne ebraiche come simboli ufficiali di distinzione. Il comando della «Brigata ebraica», come ben presto venne conosciuta, fu affidato ad un brigadiere generale (ossia un generale di brigata) canadese, Ernest Frank Benjamin, anch’egli di origine ebraica. Un comunicato del War Office del 20 settembre 1944 sanciva questa trasformazione, stabilendo inoltre il quartiere generale dell’unità in Egitto.
La composizione dell’unità era articolata in tre battaglioni di fanteria, in un reggimento di artiglieria da campagna (fatto che secondo l’ordinamento militare vigente faceva sì che la medesima fosse da considerarsi una brigata propriamente intesa), in una compagnia di genieri e in una serie di gruppi accessori e di supporto, secondo la classica ordinanza dei reparti da combattimento di medie dimensioni. L’impiego della Brigata sul fronte italiano, dove fu stanziata dopo un periodo di addestramento al combattimento in Egitto, si avviò nel tardo autunno del 1944. Il ricorso a unità, anche di grosse dimensione, costituite da truppe non inglesi o americane ma provenienti da nazionalità, colonie, domini o mandati alleati o controllati da Londra, si inscriveva sia nel carattere mondiale che il conflitto aveva assunto quasi da subito, sia nella scelta effettuata dal 1943 di disporre delle più grandi e meglio addestrate unità britanniche per l’invasione della Normandia. Lo scenario bellico italiano, che impegnava la Quinta armata statunitense e l’Ottava inglese, aveva peraltro progressivamente perso di rilevanza nel momento in cui la tenaglia antitedesca si stava stringendo dai due lati, quello orientale, con le truppe sovietiche, e quello occidentale, con quelle alleate. Nel suo complesso, la «campagna d’Italia» aveva già raggiunto un primo obiettivo il 25 di luglio 1943, con la caduta del regime fascista; ne aveva generato un secondo con l’8 settembre dello stesso anno, all’ufficializzazione della firma dell’armistizio; ne garantiva un terzo, tenendo impegnato al fianco Sud un buon numero di militari tedeschi (sarebbero arrivati ad essere circa mezzo milione), i cui comandi erano preoccupati soprattutto di garantire il rallentamento dell’avanzata nemica verso i confini del Reich, allora corrispondenti al Brennero, accordando inoltre lo svolgimento delle operazioni negli Appennini con l’evoluzione del quadro balcanico e di quello francese.
In questo quadro, per l’appunto, la Brigata ebraica si trovò ad operare dopo un secondo periodo di addestramento al combattimento in Italia (tra Fiuggi e Palestrina nel Lazio), tenutosi successivamante allo sbarco a Taranto. Sotto il comando inglese, inserita negli ordini di battaglia dell’Ottava armata (comandata dal tenente generale Richard McCreery), fu in un primo tempo trasferita nell’area adriatica del fronte anglotedesco e poi inserita in linea nei primi giorni di marzo del 1945. Attestatasi in prossimità delle truppe nemiche, ricevette quindi la bandiera di combattimento (tre strisce bianche, intervallate da due azzurre, con al centro il simbolo del Maghen David, la stella di Davide). Con tali insegne, partecipò quindi ai combattimenti, insieme ad unità del Corpo italiano di Liberazione e reparti della Terza divisione del Corpo di armata polacco. Così ad Alfonsine, in prossimità di Ravenna, tra il 19 e il 20 marzo 1945, poi a Brisighella, con i bersaglieri e i granatieri del Gruppo di combattimento Friuli contro la Quarta divisione paracadutisti germanica, dove conquistò la zona meridionale del fiume Senio, stabilendovi quindi una testa di ponte sulla riva opposta. Nei primi dieci giorni di aprile operò, in accordo con il resto del fronte alleato, nello sfondamento della Linea gotica, sulla quale erano attestate le truppe tedesche. La 745ma compagnia «Solel Boné» (letteralmente «pavimentazione ed edificazione») contribuì ad aprire la strada alla Quinta armata americana verso Milano. Il ciclo operativo dell’unità durò dal 3 marzo alla fine di aprile 1945, contando ottantatré caduti (parte dei quali tumulati in Italia, a Piangipane, nel ravennate) e circa duecento feriti. A conflitto concluso, venne raccolta ed acquartierata a Tarvisio. Le compagnie di genieri e trasporti furono inoltre suddivise nel nord d’Italia.
Al di fuori degli impieghi bellici, vincolati alla rigida volontà del comando britannico, molto oculato nel disporre dell’impiego delle unità combattenti straniere, anche in previsione del loro futuro ruolo una volta terminati i combattimenti e reimpatriate, la Brigata ebraica svolse altre funzioni, provvedendo al sostegno della popolazione ebraica sopravvissuta all’occupazione nazifascista. In tali vesti, in un’Italia che era stata appena attraversata dal ciclone della guerra, si impegnò in un’azione di supplenza rispetto alle autorità pubbliche nel concorso attivo (cibo, indumenti, abitazioni, medicinali ma anche informazioni e comunicazioni oltre che i servizi religiosi e liturgici) verso le famiglie, i profughi, gli orfani, cercando di garantirgli inoltre le condizioni minime per la ripresa della vita civile e sociale. Dopo la liberazione di Roma, ad esempio, i militari ebrei si impegnarono nell’azione di soccorso verso la comunità capitolina, drammaticamente colpita dalle deportazioni. Contribuirono a riaprire il Tempio e la scuola elementare Vittorio Polacco. Inaugurarono un centro centro giovanile in via Balbo, dove tennero corsi di storia, cultura e lingua ebraica. In tali vesti, vennero anche spiegando quale fosse il significato dell’istituzione di una comunità politica ebraica nella Palestina mandataria.
Furono inoltre tra quanti concorsero a riattivare l’attività della Delasem, l’organizzazione (istituita ai tempi del fascismo, nel 1939, e poi dal 1943 entrata in clandestinità) di coordinamento per l’assistenza verso i profughi ebrei. Sempre a Roma, fu istituto il «Centro per la Diaspora», insieme ad altre attività per la risocializzazione, come l’«Haksharà Laneghev» a Ponte di Nona, o l’«Haksharà Kadima» a Valle Violata, quest’ultimo impegnato nel lavoro con i giovanissimi, tra i 12 e i 16 anni. La Delasem, con l’aiuto delle compagnie ebraiche, si impegnò quindi per i numerosi orfani, istituendo tre centri di raccolta, rispettivamente ad Ostia, sulla via Cassia e presso l’Orfanotrofio Pitigliani. A Milano, nella primavera del 1945, sotto la guida di Raffaele Cantoni, commissario straordinario della comunità ebraica ambrosiana, in un edificio in via Unione, già sede del Fascio, quindi messo a disposizione dal Comitato di liberazione nazionale-Alta Italia, la compagnia «Solel Boné», insieme alle autorità ebraiche e in accordo con Riccardo Lombardi e Ferruccio Parri (che erano particolarmente attenti alla situazione dei profughi, cogliendone l’impatto non solo umano ma anche politico), avviò la ricostruzione della presenza istituzionale dell’ebraismo locale.
Una seconda funzione fu quella, di sostenere i profughi che dall’Europa centrale si trasferivano verso altre mete, soprattutto la Palestina mandataria. Tale attività era considerata totalmente illegale dagli inglesi, e quindi sistematicamente osteggiata. Le unità della Brigata ebraica si adoperarono attivamente nella tessitura di una rete di comunicazioni clandestine che trovava nei porti liguri, dove spesso il sostegno della popolazione locale e dei lavoratori risultava strategico, il punto di partenza per un naviglio (nel suo insieme si conteranno più di una sessantina di battelli di vario tonnellaggio, molto spesso abborracciati, adibiti al trasporto di sopravvissuti alla deportazione e allo sterminio) che si muoveva verso le terre del futuro Stato d’Israele. Segnatamente, molte di queste imbarcazioni, una volta arrivate in prossimità delle coste del Mediterraneo orientale, venivano intercettate dagli inglesi, abbordate, sequestrate, mentre il personale di bordo veniva arrestato e i passeggeri internati perlopiù a Cipro. Nel complesso, quella che era conosciuta come «Brichà» («volo») e «Aliya Beth», garantì a molti ebrei europei, divenuti nel mentre apolidi di fatto, l’approdo nel Mediterraneo orientale. Si stima che il contributo dei membri della Brigata ebraica a questa migrazione collettiva abbia interessato tra i 15mila e i 22mila correligionari.
Non era infrequente che ad una tale opera si accompagnasse nel mentre l’impegno ad avviare i profughi verso attività di preparazione al lavoro agricolo, artigianale e di autoprotezione, in previsione degli impegni che li avrebbero coinvolti una volta giunti alla loro definitiva destinazione. Già a Bari, e poi via via che l’Italia veniva liberata anche in altre province, furono infatti costituiti centri di attività per i profughi sotto il coordinamento e la supervisione di elementi della Brigata. Si trattava delle «Haksharot» (unità agricole in cui si tenevano corsi di ebraico, di avviamento al lavoro agricolo ma anche di formazione politica). La prima di esse, «Rishonim», nata tra il febbraio e il marzo del 1944 per l’appunto a Bari, e la seconda, «Dror», a Sannicandro, furono il risultato dell’azione dei membri della 148ma, 462ma, 178ma e 468ma compagnie del Palestine Regiment. In esse trovarono riparo perlopiù ebrei stranieri, provenienti dalla Cecoslovacchia e dalla Yugoslavia. Proprio a Bari, nel marzo di quell’anno, arrivò Enzo Sereni, proveniente dal kibbutz Ghivat Brenner. Esponente del socialismo sionista e poi martire della Resistenza europea, seguì un training formativo di paracadutismo per essere poi lanciato oltre le linee tedesche, in prossimità di Firenze. Catturatovi, verrà assassinato a Dachau il 18 novembre del 1944.
L’Italia settentrionale fu per tutta la seconda metà del 1945 e per il 1946 lo scenario di questa intensa attività. Nel giugno del 1945 era sorto a Pontebba, nel territorio tarvisiano dove la Brigata era stata posta in stallo temporaneo, un centro di raccolta profughi e preparazione all’emigrazione. L’«Haksharà Achdut», organizzata da membri della 650ma e della 179ma compagnia, si articolava nelle località di Brivio e poi di Ceriano Laghetto. Altri centri, nel mentre, stavano sorgendo a Mestre, Magenta e Nonatola. Particolarmente significativo fu inoltre il centro di Selvino, nel bergamasco, dove trovarono ospitalità più di ottocento ragazzi, con la partecipazione dei membri del Comitato di liberazione nazionale. La storia di «Sciesopoli», la casa alpina diretta da Moshe Zeiri, già milite della Brigata ebraica, che ospitò i giovanissimi sopravvissuti, ritornati alla vita, è stata recentemente ricostruita dagli storici e dai ricercatori.
Nel suo complesso, l’attività di assistenza dei membri delle unità ebraiche, era a malapena tollerata dalle autorità britanniche. Se da un lato ciò contribuiva ad alleviare le penose condizioni nelle quali versavano molti profughi, dall’altro era chiaro che l’obiettivo di essa era quella di preparare i beneficiari all’immigrazione nella terra d’Israele. Anche per questa ragione, ossia dinanzi al ripetersi delle frizioni con il comando inglese, che guardava con ostilità alla migrazione in atto, la Brigata fu prima trasferita come unità di occupazione in Belgio e in Olanda e poi smobilitata, dopo essere stata assegnata all’Ottavo corpo dell’esercito britannico, all’epoca stanziato sul Reno, nello Schleswig-Holstei. Entro la fine dell’estate del 1946 aveva cessato formalmente di esistere, anche se una parte dei suoi componenti, non rientrati nella Palestina mandataria, continuarono ad operare in Europa ed in Italia per continuare a favorire l’ingresso dei profughi in quello che di lì a poco sarebbe divenuto lo Stato d’Israele.
A tale attività si affiancarono le operazioni segrete contro i fuggiaschi nazisti. Poiché nel mentre, va ricordato, l’Italia settentrionale iniziava ad essere attraversata dalle Ratlines, le vie di fuga clandestine usate da quanti erano si erano compromessi con il regime hitleriano. In particolare un gruppo della Brigata, conosciuto come «Tilhas Tizig Gesheften» (letteralmente, «leccami il sedere»), costituitosi clandestinamente subito dopo la conclusione della guerra, si dedicò ad identificare e a colpire gli ex nazisti, contribuendo inoltre all’immigrazione dei sopravvissuti alla Shoah in Palestina e all’invio di armi ai gruppi dell’Haganah, le unità combattenti ebraiche che nel 1948 avrebbero dato vita all’esercito israeliano. In tale quadro si inserisce anche l’operazione «Nakam» («vendetta»), che vedeva impegnati una cinquantina tra scampati ai campi di concentramento ed ex partigiani ebrei, con l’ausilio di alcuni elementi della Brigata, nel dare la caccia a elementi delle SS e dell’esercito tedesco, implicati (o considerati tali) nelle atrocità e nei delitti commessi contro gli ebrei. Si trattava anche di un’attività di intelligence, poiché richiedeva la raccolta di informazioni sia attraverso gli interrogatori dei sospetti sia per mezzo dello spionaggio tra le file dei commilitoni inglesi. In realtà il gruppo dei “vendicatori” si mosse sempre con il massimo grado di autonomia rispetto alla formazione militare ebraica, ma per certi aspetti se ne avvalse, laddove ciò poteva tornargli utile, soprattutto usando uniformi, veicoli, documenti britannici. Rispetto alle intenzioni iniziali, quelle di avvelenare il maggiore numero possibile di tedeschi coinvolti nella Shoah, concretamente si ritiene che le sue vittime siano state tra le 1.500 e le 2mila.
Conclusosi quell’arco di tempo e subentrato, nel maggio del 1948, lo Stato d’Israele, la vicenda della Brigata fu riassorbita dentro l’evoluzione delle forze armate israeliane, divenendo oggetto di memoria. In Italia, il 3 ottobre 2018, per volere del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo il voto unanime delle Camere, l’ex unità è stata insignita della medaglia d’oro al valor militare per il suo contributo alla lotta di Liberazione. In Israele, tra i veterani che avevano già combattuto sul territorio italiano, trentacinque di loro divennero poi generali. Al di là del medagliere e delle onoreficenze restano tuttavia le motivazioni politiche che spinsero alla lotta, indossando la divisa dell’esercito inglese, migliaia di uomini. I quali si trovarono ad agire entro i rigidi margini di manovra imposti dalla Gran Bretagna, potenza mandataria fino al 1948. L’adesione alle ragioni del fronte alleato erano peraltro incontrovertibili e insindacabili, trattandosi di una questione di vita o di morte. Ma anche di dignità. Al pari di ogni resistente d’Europa.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.