La Comunità piemontese, in occasione del settantacinquesimo Yom HaAtzmaut, organizza un incontro pubblico. Tra riflessioni sul passato e analisi del presente
Domenica 23 Aprile, a Casale Monferrato, nel complesso Ebraico di vicolo Salomone Olper, verrà presentata alle 11,30 l’opera Sheep Portrait 6 realizzata nel 1991 da Menashe Kadishman. Un’esposizione che è in realtà l’anteprima di una mostra intitolata Israele arte e vita – omaggio a Menashe Kadishman che sarà ospitata nei locali della Comunità a partire dal 10 settembre, in occasione della XXIV Giornata Europea della Cultura Ebraica.
Alle 16, sempre del 23 aprile, la Comunità ebraica di Casale Monferrato celebra l’indipendenza dello stato di Israele che quest’anno festeggia il settantacinquesimo Yom HaAtzmaut. Introdotto dal presidente della Comunità, Elio Carmi, Claudio Vercelli terrà un intervento tra storia e presente.
Qui di seguito, lo storico, collaboratore di Joimag, fotografa l’attuale situazione di Israele e i possibili sviluppi dei prossimi mesi.
Poche considerazioni ma, in sé, essenziali. Si sta esaurendo il periodo di tregua, proclamato dal premier Benjamin Netanyahu, rispetto al controverso iter legislativo relativo alla radicale riforma della giustizia che l’attuale maggioranza aveva messo da subito in agenda tra le sue iniziative di maggiore peso. Dopo il periodo delle festività pasquali (ebraiche e cristiane) e delle ricorrenze legate ai Giorni della Shoah, dei caduti e dell’Indipendenza, le piazze d’Israele sono tornate a riempirsi di centinaia di migliaia di manifestanti che, evidentemente, non intendono cessare di esprimere il loro dissenso nei confronti degli indirizzi di fondo assunti dall’attuale esecutivo. La questione del rifiuto della revisione dei rapporti tra poteri politici e sistema giudiziario è solo una sorta di “ombrello” sotto il quale si raccolgono malumori di ben altro tenore, a partire dalla crisi di rappresentanza, e quindi – in immediato riflesso – di legittimità, che potrebbe esprimersi d’ora innanzi tra le forze che governano il Paese e una considerevole parte dell’elettorato.
Il tema è molto spinoso, estremamente impegnativo e non può prestarsi a facili schematismi. Lo scontro tra l’attuale maggioranza di destra, emersa dal voto nelle ultime elezioni del tardo autunno scorso, con un programma politico radicale, e il resto della società, rimanda a fratture difficilmente ricomponibili. Dove la contrapposizione tra le forze politiche che siedono nell’esecutivo e un considerevole numero di israeliani che, pur da posizioni tra di loro molto diverse, non si riconoscono in esse, ovvero nei loro indirizzi di fondo, è tale da esacerbare preesistenti fratture e conflitti che attraversano l’intera società. Peraltro, non da oggi.
Malgrado i molteplici appelli al compromesso e i richiami, anche autorevoli, come quelli del presidente d’Israele Isaac Herzog, alla mediazione, gli spazi di negoziazione risultano quindi essere molto ridotti se non addirittura nulli. È oramai da una quindicina di settimane che una parte della collettività israeliana scende in piazza, a partire dai sabati sera, in una sorta di abbraccio collettivo.
A questo susseguirsi di espressioni di disaccordo, si è tuttavia accompagnata, soprattutto nei giorni di Pesach, auspice lo stesso Herzog, una serie frenetica di interlocuzioni tra le diverse componenti politiche, di maggioranza e minoranza, per arrivare ad una qualche intesa di principio sul merito della legge di riforma della giustizia che è in standby alla Knesset. C’è un termine ultimo che è dato dal 30 aprile, giorno a partire dal quale il parlamento nazionale monocamerale inizierà i lavori della sua sessione estiva. Per cercare un residuo terreno di mediazione si è quindi lavorato sulla composizione del comitato di nomina dei giudici della Corte suprema, uno dei passaggi più delicati.
Rimane il fatto che all’attività legislativa ordinaria si antepone, a questo punto, l’agenda delle scadenze incomprimibili e inderogabili. Entro il 29 maggio, infatti, il bilancio dello Stato dovrà essere approvato dai parlamentari. In assenza di un voto di maggioranza favorevole, secondo la normativa vigente la legislatura automaticamente decadrà, obbligando il Paese al ritorno alle urne. Anche per una tale ragione, a questo punto stringente, i mass media israeliani sottolineano come in tutta probabilità il governo Netanyahu opterà per un’ulteriore proroga della tregua parlamentare, benché alcune sue componenti, a partire dal Partito nazionale religioso, intendano invece proseguire sulla strada dell’approvazione della controversa riforma. In un braccio di ferro che cercheranno comunque di portare avanti, trattandosi non solo del loro programma politico ma anche della ragione stessa per la quale sono entrate nella maggioranza.
In realtà, ad oggi l’esecutivo è senz’altro concentrato sulla questione del bilancio ma intende proseguire a breve anche nel suo programma. Cosa che opposizioni parlamentari e manifestanti, invece, non vogliono in alcun modo concedere. Non è comunque plausibile che di qui alla fine di maggio si possa ricostruire del tutto un clima di fiducia tra le diverse parti in causa, posto che è l’intera agenda del governo ad essere oggetto di un vasto rifiuto. Ad un tale quadro interno si aggiungono poi le pressioni che, a vario titolo, in maniera più o meno evidente, sono arrivate da interlocutori ed alleati internazionali, dagli Stati Uniti – vivamente preoccupati per le tensioni che attraversano il paese – all’agenzia di rating Moody’s, che ha prudenzialmente declassato il rating del credito israeliano.
Il Jerusalem Post, nell’edizione del 17 aprile, rilevava come non esista «una sola sfera della società israeliana che non sia influenzata dalle decisioni su cosa entra nel bilancio e cosa ne resta fuori. Le sfide sono infinite. Le gravi minacce alla sicurezza ai confini, la criminalità dilagante nel settore arabo-israeliano che ha visto altre quattro persone uccise solo nell’ultimo fine settimana, l’aumento dei casi di violenza domestica e dell’illegalità nella regione del Negev richiedono tutte un budget rafforzato per le forze di sicurezza. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Queste sono le questioni su cui gli israeliani hanno bisogno che adesso si concentri il governo. La coalizione dovrebbe stabilire le sue priorità e concentrarsi sulla formulazione di un budget che risponda alle esigenze del popolo israeliano. Allo stesso tempo, la coalizione e l’opposizione dovrebbero lavorare senza sosta fino a quando non emergeranno con un compromesso che offra una soluzione al ginepraio giudiziario che sia accettabile per entrambe e consenta al paese di rimettersi in carreggiata per gestire le questioni più urgenti che deve affrontare».
Se l’orizzonte di aspettative è questo, rimane tuttavia il fatto che le fratture (di credibilità, di legittimità, di consenso) nella società israeliana siano particolarmente esacerbate. L’attuale governo, con le sue posizioni fortemente divisive, non ha fatto altro che alimentarle. In quattro mesi, da gennaio ad oggi, mai si era assistito ad una tale polarizzazione, facendo sì che gli stessi osservatori giudicassero lo stato delle cose come espressione della più grave crisi d’Israele dal 1948 ad oggi. Se le cose stanno così, è quindi molto difficile pensare che si possa arrivare ad una sorta di riconciliazione nazionale perdurante l’attuale stato di cose e persistendo i medesimi protagonisti della scena pubblica. D’altro canto, l’impasse sembra lo scenario obbligato. Poiché non deriva solo dalla pervicacia dell’attuale premier, deciso a molto, se non a tutto, pur di non essere disarcionato. Infatti, nulla e nessuno, al netto della sua figura, sono nel mentre emersi come potenziali alternative allo stato di cose esistenti.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.