La recensione del libro appena uscito per Guanda
La casa della nonna. Il salotto della nonna. La cucina della nonna. Per molti di noi sono questi i luoghi mitici del tempo dell’infanzia, luoghi di memorie, dov’è facile ritrovare ninnoli polverosi, canzoni e rituali dal sapore antico, odori indimenticabili che ancora ci pungono le narici. In questa descrizione incantata, quasi magica sembra rientrare anche la casa di Elena Dresner, la nonna materna di cui la scrittrice e drammaturga Laura Forti ricostruisce i tumultuosi eventi familiari nel romanzo da poco uscito per Guanda Editore, La figlia inutile. Tuttavia, dietro la rassicurante collezione di gatti di ceramica, dietro la sartoria amatoriale improvvisata in salotto, si celano segreti oscuri che si agganciano alla dimensione misteriosa nella quale da sempre dimora buona parte della famiglia. Segreti che soltanto la notte trovano una via per manifestarsi alla realtà, sotto forma di incubi e di insonnie implacabili.
«Torna a letto», dice allora la nonna alla nipote bambina, «non è niente, ho sognato di nuovo il giallo». Ma la voce, nota la piccola, le si è tramutata in un pigolio lamentoso. Quante ombre nella casa di Elena Dresner, quante nella sua vita e persino nella sua morte, che consegna alla narratrice una tomba semi-vuota, nella zona del cimitero ebraico destinata ai suicidi o ai casi ambigui come il suo, e soprattutto una serie di interrogativi taglienti quanto una lama: «L’abbiamo mai conosciuta? È esistita davvero?». La scrittura diventa così strumento di elezione di una ricerca, dolorosa e appassionata insieme, un riflettore che viene finalmente a illuminare un’affinità – quella tra la narratrice e la nonna – dalla trama ardua e intricata.
Alejandro Jodorowsky scrive che il legame tra i nipoti e la nonna materna possiede una qualità unica. È, infatti, un vincolo che va ben oltre l’aspetto emotivo, è genetico, addirittura “mitocondriale”. Il rapporto di elezione tra la narratrice e la nonna Elena si basa, certo, sulla consanguineità, ma, sotto alcuni aspetti, quest’ultima è un dato quasi marginale, superato da una rete di analogie ancora più forti. «Adesso so perché», scrive Laura Forti, «eravamo unite da una corrente muta e misteriosa, perché tutte e due avevamo lo stesso disperato bisogno di quei pomeriggi che per noi erano oasi di grazia e di respiro. Perché ci eravamo viste e riconosciute. Perché io le volevo bene e lei a me». Nonna e nipote sono entrambe accomunate da un modo complesso, straziante di essere “figlie”. A questo riguardo, per Laura Forti La figlia inutile viene a completare il percorso avviato nei romanzi precedenti, L’acrobata (Giuntina, 2019) e soprattutto Forse mio padre (Giuntina, 2020). Benché la “figlia inutile” cui si allude nel titolo di questo libro si applichi principalmente alla nonna, anche la dura vicenda personale della nipote non si allontana troppo da questa definizione. Non è un caso forse, se proprio su quest’ultima ricade anche la scelta della trasmissione dell’ebraismo da parte della stessa Elena, un retaggio di tradizioni da cui tuttavia non è possibile scindere i traumi, individuali e collettivi, i cosiddetti “graffi” della storia: i pogrom, le leggi razziali, la Shoah.
Al di là della figura di Elena Dresner, cardine indiscusso della narrazione, La figlia inutile ci restituisce uno spaccato autentico di storia ebraica, all’interno del quale incontriamo nomi e volti indimenticabili, che animano di vita e di sentimenti i reperti genealogici e documentari. E se anche mutano sembianza i cognomi, le lingue, le dimore non cambia nel lettore la sensazione di essere davanti al racconto di generazioni inquiete, indomite, che hanno attraversato tragedie talvolta enormi, abbracciato con entusiasmo le ideologie più svariate, varcato sentieri sconosciuti nella speranza d’intrecciare una vita nuova. Sono uomini e donne che hanno molto amato, ma anche molto tradito, spesso i propri cari, persino i figli, coloro che avrebbero dovuto, invece, difendere. Il grande pregio di questo libro, capace di avvicinarlo alla letteratura ebraica di respiro internazionale, è la scrittura precisa e spietata che non rifugge dagli angoli più bui delle relazioni familiari, al contrario li indaga con coraggio. Se uno dei mantra più logori dei nostri tempi recita che “la famiglia non si sceglie”, ne La figlia inutile apprendiamo invece di nuclei familiari dove la scelta risulta una pratica abituale, spesso incomprensibilmente necessaria, i cui effetti differiti attraversano più generazioni. Perciò la scrittura di questo libro ci appare soprattutto come un atto liberatorio, un restituire le ceneri del passato alle acque del tempo scorre. Un atto che suscita spavento ma, al tempo stesso, salva e libera.
Laura Forti, La figlia inutile, Guanda, pp. 256, 19 euro
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).