Cultura
“La forma della mente”, il giallo fantastorico di Vincenzo Pinto

Un thriller ingarbugliato e inquietante dal finale aperto, primo capitolo di una serie di volumi con cui l’autore vuole ripercorrere i tre anni decisivi che vanno dalla liberazione di Auschwitz alla nascita dello stato di Israele

È un libro strano La forma della mente di Vincenzo Pinto (Belforte), uno di quelli che possono piacere o no, ma difficilmente lasciano indifferenti. A dire in quali territori ci troviamo è la banda gialla sul fondo nero della copertina, autentica dichiarazione di genere: “giallo fantastorico”. Fantastico, perché di pura invenzione è la vicenda. Storico, perché storico è il contesto: Auschwitz e Cracovia tra gennaio e marzo 1945, ed è inutile aggiungere particolari d’ambiance. Ma storici, soprattutto, sono i modi di pensare, di situarsi nel mondo, di relazionarsi con gli altri dei numerosi protagonisti: nazisti, comunisti sovietici, soldati dell’Armata rossa, ebrei sopravvissuti alla Shoah, sionisti, polacchi. Sulla gelida copertina vediamo un cielo pieno di stelle, la grande luna piena in alto, una distesa imbiancata di neve in basso e, al centro, la cancellata di Auschwitz, quella che tutti abbiamo negli occhi, con sopra la scritta atroce da cui pende, semitrasparente, un cadavere impiccato che veste la divisa dell’Armata rossa. Un’ altra figura, questa volta in nero, addita la schiena della prima. Quello che più colpisce non è il gesto, che verrà chiarito nel corso della lettura, bensì la distorsione del sadico slogan sulla cancellata: Arbeit Mach Frei. Non è un refuso, la T di Macht giace a terra, nella neve, sotto il corpo appeso senza vita.

Con La forma della mente Vincenzo Pinto, saggista, traduttore e storico che da anni si occupa di sionismo e di ideologie del primo Novecento (ha curato tra le altre cose l’edizione critica di Mein Kampf) si avventura nelle regioni della narrativa, cioè della finzione. Il risultato è un thriller ingarbugliato e inquietante dal finale aperto, primo capitolo di una serie di volumi con cui l’autore vuole ripercorrere i tre anni decisivi che vanno dalla liberazione di Auschwitz alla nascita dello stato di Israele. La vicenda, tuttavia, è anche un palcoscenico su cui assistiamo alla lotta delle idee e delle ideologie, dal nazismo al comunismo al sionismo. Il substrato filosofico del libro, almeno altrettanto importante dei fatti narrati e dell’ambientazione storica, è un impasto tra le altre cose delle riflessioni sul tramonto dell’Occidente di Spengler, di tradizioni alchemiche e magiche e del pensiero scientifico e pseudoscientifico elaborato a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Metamorfosi
La metamorfosi, trasformazione fisica e mentale, è uno dei temi al cuore del libro, che raccoglie e prosegue un grande filone della letteratura europea che va dalla moglie di Lot trasformata in statua di sale a Ovidio, dalle orrende trasmutazioni di cui sono vittime i ladri nell’Inferno dantesco fino allo Zelig di Woody Allen. Ma la metamorfosi – di volta in volta temuta o desiderata – rappresenta anche la possibilità di un nuovo inizio. In questo senso le ideologie che cozzano l’una contro l’altra nel romanzo trovano un terreno comune, quello della costruzione dell’uomo nuovo, l’uomo del futuro. È così per il comunismo, è così per il nazismo – anche se in un contesto interamente fondato sulla sopraffazione – ed è certamente così per il sionismo, che costituisce nei decenni precedenti la fondazione dello stato una delle forme in cui si declina la rivolta ebraica contro il mondo degli stetlach, delle corti chassidiche e delle scuole religiose. I sionisti che predicano la trasformazione dell’ebreo del ghetto in agricoltore e guerriero non stanno forse affermando la necessità della metamorfosi e delle sue conseguenze, con la perdita di qualcosa di sé e la conquista di qualcosa d’altro? La metamorfosi, qui, si riflette anche nella lingua (russo, yiddish, ebraico…) e nei nomi, che spesso sono parlanti e seguono (o anticipano) la trasformazione delle forme. I nomi non sono flatus vocis, semplice emissione di voce convenzionale e senza nulla di reale come affermato secondo la tradizione dal misterioso Roscellino; al contrario, nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenti alle cose, come appunta Dante nella Vita Nuova citando il corpus giuridico di Giustiniano. Oppure, ancora più radicalmente e attingendo allo sterminato serbatoio della riflessione medievale sul linguaggio, i nomi riassumono in sé tutta la realtà, o almeno quello che ne resta quando appassiscono e cadono i petali della rosa, simbolo della caducità delle cose del mondo: nella locuzione resa celebre da Umberto Eco, stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus: la rosa primigenia esiste solo nel nome, e quello che noi possediamo è soltanto una serie di nomi nudi. Il nome, nel libro di Pinto, è cellula staminale in grado di modellare le realtà più diverse e di configurare un’umanità nuova.

Divagazione antropologica

Nel classico dell’antropologia Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Ernesto De Martino discute, tra le altre, le tesi di Carl Strehlow, ricercatore sul campo presso gli aranda e altri popoli dell’Australia centrale nel primo ventennio del Novecento. Strehlow collabora con i missionari luterani e traduce la Bibbia, con lo scopo precipuo di evangelizzare le popolazioni locali, e al contempo di queste descrive i riti. In un passo racconta delle cerimonie di iniziazione dei giovani stregoni nei termini di un percorso di morte e rinascita che comporta non solo un cambiamento mentale ma anche una trasformazione organica. All’alba, al termine della parte più faticosa del rito, il novizio è debole come un malato: non ha raggiunto un equilibrio, avendo perso l’identità precedente e non padroneggiando ancora quella nuova. Solo dopo la cerimonia conclusiva assume il pieno controllo della propria nuova natura; adesso il mago è pronto. Possiamo aggiungere – Strehlow non lo fa – che anche l’antropologo evangelizzatore, a suo modo, intraprende un’opera di plasmazione e riplasmazione degli aranda con cui viene a contatto e che si convertono a una fede che arriva da lontano (nel testo non viene detto, ma non stupirebbe scoprire che gli aborigeni convertiti assumano nomi nuovi). Nel sottobosco ideologico a cui guarda Pinto non mancano le suggestioni antropologiche, alchemiche, magiche e i rapporti di potere che queste implicano.

Effetto Mach

Secondo lo scienziato positivista Ernst Mach (ricordate la T che cade dalla cancellata di Auschwitz in copertina?), che opera a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando accostiamo due o più oggetti ne percepiamo più nettamente i confini. L’effetto che prende il suo nome ha trovato applicazione in numerosi campi, per esempio la medicina, ma ha ispirato anche le riflessioni sul montaggio e la sintassi filmica dei principali registi e teorici sovietici negli anni venti. Uno di costoro, Lev Kuleshov, ha dimostrato per esempio che la sensazione trasmessa da una inquadratura allo spettatore è influenzata in modo determinante dalle inquadrature precedenti e successive. Se all’immagine del volto di un uomo facciamo seguire quella di un piatto di minestra lo spettatore percepisce nella prima un’espressione di fame, se invece ad essa segue quella di una bambina che gioca rintraccia nel volto dell’uomo sfumature di felicità eccetera, anche se la prima immagine viene riproposta identica. La forma della mente è anche una riflessione sui confini, spesso sottili, che separano la realtà dalla percezione della realtà (ancora una volta, si vedano i personaggi semitrasparenti in copertina). Il fatto che il libro, dal punto di vista narrativo, sia pressoché interamente costruito su dialoghi accentua questo aspetto. Tutto o quasi, qui, appare espressione di singole voci, punti di vista, opinioni. Ci si chiede che cosa sia vero e che cosa no e se una realtà oggettiva possa darsi. Esse est percipi – essere significa essere percepito – è la formula scolastica che riassume il pensiero del vescovo anglicano del Settecento George Berkley.

Sabbie mobili

Il Napoleone descritto da Tolstoj in Guerra e pace – come anche quello dei Cento giorni di Josef Roth – è colui che pretende di agire senza perdere tempo, impossessandosi della realtà e controllandola. Tolstoj ironizza contro l’imperatore dei francesi, i cui piani strategici sarebbero non più decisivi di un passo nel fango dell’ultimo fante della Grande armata. La mania di controllo, che nella versione di Roth ha anche un risvolto nell’attività sessuale, viene derisa in barba allo “spirito del mondo a cavallo” (la definizione è di Hegel) protagonista delle grandi svolte nella storia. Nel libro di Pinto personaggi e comparse si pongono come attori in grado di influenzare, trasformare, talvolta perfino riplasmare il mondo, ci accorgiamo però presto che i loro sforzi vengono frustrati, le loro azioni girano a vuoto come cacciaviti spanati. I personaggi stessi sembrano via via risucchiati nelle sabbie mobili di un gioco più grande di loro. Si illudono di muovere l’ingranaggio ma ne sono mossi. Di più: dall’ingranaggio vengono fagocitati fino a diventarne una rotella o un pulsante, come l’operaio interpretato da Charlie Chaplin in Tempi moderni risucchiato nel disumano, stupido e mostruoso macchinario.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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