Inaugurata il 10 marzo, coinvolge cinque musei, 10 gallerie, 33 mostre, e oltre 200 artisti per 7 settimane di arte contemporanea israeliana e internazionale
Sarebbe dovuta inaugurare il 17 Novembre 2023, poi, a causa della guerra, è stata rimandata al 10 Marzo 2024 e, nonostante il conflitto ancora in corso, l’obiettivo, non solo di mettere in mostra le opere d’arte, ma anche di creare eventi collaterali per promuovere il dialogo tra culture diverse, diventa, nel contesto di un conflitto ancora in corso, più significativo che mai.
Un progetto straordinario che coinvolge 5 musei, 10 gallerie, 33 mostre, e oltre 200 artisti: 7 settimane di arte contemporanea israeliana e internazionale disseminata per tutta Gerusalemme, grazie a un ambizioso progetto creato, per la prima volta dieci anni fa, dal suo Direttore Artistico e fondatore, Rami Ozeri.
Come è cominciata e come poi si è evoluta l’idea di una Biennale di Gerusalemme?
«La prima Biennale si è realizzata nel 2013, frutto di oltre tre anni di duro lavoro ma anche dei numerosi cambiamenti avvenuti nella mia vita, che, negli anni, ha preso una piega completamente diversa, fino a spingermi a cambiare drasticamente anche la mia professione. Sono nato e cresciuto a Gerusalemme dove ho studiato all’Università Ebraica, luogo in cui ho conseguito un BA in Filosofia, seguito da un MA in Economia.
Nonostante avessi già una carriera avviata, a trenta anni mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Bezalel, con uno spirito molto differente rispetto a quello dei miei compagni di corso. Ero, infatti, molto più vecchio e con un profilo diverso rispetto al tipico studente che si iscrive ad un’accademia, colmo di sogni e, solitamente, per nulla pratico.
Sapevo fin dal momento in cui mi ero iscritto che non sarei mai diventato un artista ma, al tempo stesso, volevo che l’arte diventasse una parte centrale della mia vita, per lavorare fianco a fianco con gli artisti e, soprattutto, per permettere loro, attraverso l’espressione artistica, di poter riflettere sull’identità ebraica, sulle sue profonde radici e sul significato di cosa significa essere israeliano oggi».
Cosa l’ha portata a fare il passo successivo?
«Finiti gli studi, nel 2010, sono andato a vivere per un breve periodo a Berlino, dove, per caso, era in corso la Berlin Biennale: una grande piattaforma per dar voce ad artisti sia locali che internazionali. Nonostante in passato avessi visitato altre Biennali – tra cui, ovviamente, quella di Venezia, madre di tutte le Biennali – in quel momento, a Berlino, ho capito che quello che volevo era creare a Gerusalemme una piattaforma in cui sia artisti israeliani, sia artisti provenienti da tutto il mondo, potessero utilizzare gli spazi anche meno conosciuti dalla città, per esprimere non solo la propria arte ma anche la propria identità, in tutte le loro sfaccettature. Dopo essermi confrontato per tre anni con musei, gallerie e altre istituzioni della città, nel 2013 abbiamo aperto la prima edizione, proprio con lo scopo di connettere luoghi diversi di Gerusalemme: sia luoghi adibiti all’arte che contenitori differenti, ma fortemente connessi al tessuto urbano della città. Fin dalla sua prima edizione, nonostante le mostre fossero solo 6 e gli artisti solo 60 – e il tutto realizzato praticamente a zero budget – la Biennale riscosse immediatamente un grande successo, sia di pubblico che mediatico, il che ci ha permesso, negli anni avvenire, di crescere e di ospitare artisti internazionali dal calibro di Marina Abramovich, come nel corso della Biennale del 2019.
Purtroppo, nel 2021 – a causa del covid – abbiamo avuto una Biennale più piccola e più locale, ma anche questo ha avuto i suoi vantaggi, perché ci ha permesso di scoprire nuovi luoghi della città, che non avevamo ancora utilizzato, fino a realizzare quest’anno, in occasione dei 10 anni dalla sua prima edizione – nonostante i 4 mesi di ritardo a causa della guerra, ndr. – la Biennale più grande, sia per numero di artisti, sia di curatori, sia di spazi utilizzati.
Questa sesta Biennale è intitolata “Iron Flock”. Perché la scelta di un titolo così enigmatico?
Il titolo che era stato scelto per questa sesta edizione, ben prima del 7 ottobre, aveva qualcosa di quasi profetico nel suo contenuto. “Iron Flock”, in inglese, è la traduzione dell’ebraico “Tzon Barzel”, letteralmente: “gregge di ferro”, citazione che viene da un noto passo dell’artista israeliano Moredechai Ardon che sta a significare il movimento di un gruppo che diventa la fondazione di qualcosa. “Perché un gregge, per potersi muovere da un luogo all’altro, deve essere unito e forte, come il ferro. Nonostante la connotazione maschile che ha di solito un materiale forte come il ferro, la bellezza di questa metafora è che viene solitamente utilizzata per rappresentare la forza della madre, ovvero di colei che, per natura, guida il gregge. Fin da subito, ci è piaciuta questa metafora femminista come cornice con cui abbracciare tutti i lavori selezionati dalla Biennale: come un gregge di artisti, di tutti i generi e di tutte le identità, guidati da questa grande forza generatrice.
Il tema di questa Biennale ci era chiaro già nel 2022, un anno prima di quella che avrebbe dovuto essere la sua apertura ufficiale, molto prima che la situazione politica in Israele prendesse il corso che ha avuto nel 2023 – con l’inizio delle proteste anti-riforma giudiziaria, ndr. – fino al terribile massacro di Hamas del 7 ottobre. Ovviamente, nel contesto politico di questi giorni, la connotazione della Biennale, offerta da un titolo già di per sé così intenso, diventa ancora più forte, tanto che ci siamo chiesti, persino, se cambiarlo o meno. Ma non volevamo tradire la nostra natura per cui abbiamo cercato di contestualizzare la mostra all’interno dello specifico contesto socio-politico che Israele sta affrontando in questi giorni, soprattutto attraverso la scelta di artisti e curatori che volevano far sentire la propria voce».
Quale messaggio volevate che arrivasse, sia in Israele che all’estero, dopo il 7 ottobre?
L’attacco del 7 ottobre, a solo un mese da quella che avrebbe dovuto essere l’inaugurazione ufficiale, ha interrotto, oltre a migliaia di vite, anche la celebrazione di un decennio di attività nel campo dell’arte contemporanea, nel corso delle quali Gerusalemme, per sette settimane, diventa il centro internazionale per artisti provenienti da tutto il mondo. In quelle settimane, per sostenerci, i nostri partner internazionali hanno creato una serie commovente di lavori per esprimere la loro solidarietà all’estero. Ma ora è il momento di tornare in città. Oggi la sfida nello stabilire e mantenere canali di collaborazione nel mondo dell’arte internazionale è più importante che mai, oltre ad essere un modo affascinante per scoprire Gerusalemme come non si era mai vista prima».
La Biennale chiuderà il 29 Aprile e si svolgerà in più di 20 sedi, tra cui lo storico edificio Sha’arei Tzedek che funge da sede della Biennale di Gerusalemme, il Museo Heichal Shlomo, il Museo delle Terre della Bibbia, il Museo d’Arte Ebraica Italiana, il Museo On The Seam, il Van Leer Jerusalem Institute, il Jerusalem Theatre, i Jerusalem Botanical Gardens, Hamiffal, la Beita Gallery e la Blackbox Street Gallery.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.