Negare, rimuovere, e banalizzare sono parte del processo di decomposizione dell’accordo sulle regole per interpretare il passato. Ma senza quelle regole il passato si relativizza e viene a mancare una prospettiva per il futuro
Adesso, se si fa una ricerca sulle pagine web, invariabilmente si trova la dicitura «pagina non trovata. Attenzione: la pagina a cui hai tentato di accedere non è stata trovata. Può essere stata rimossa o temporaneamente non raggiungibile». Dopo qualche giorno di polemica, infatti, il comunicato stampa sul Giorno della Memoria licenziato dalla municipalità di San Francesco Al Campo, nella città metropolitana di Torino, un comune di poco meno di cinquemila abitanti, a pochi chilometri dal capoluogo piemontese, è stato infine cancellato. Con esso anche un successivo documento di precisazione delle affermazioni che vi erano contenute. Che a sua volta, tuttavia, non aveva fatto altro che ravvivare la polemica.
Già, quale polemica? Nel testo del documento si dava ragione del significato della ricorrenza civile, ricordando il senso letterale della parola Olocausto: «l’omicidio di massa di ebrei avvenuto durante la seconda guerra mondiale per iniziativa della Germania nazista guidata da Adolf Hitler». Dopo di che si aggiungeva da subito che tale crimine, «secondo le tesi storiche tradizionaliste dominanti», era stato realizzato con «una sistematica e lucida volontà antisemita che voleva sterminare fisicamente il maggiore numero di ebrei possibile». Di corredo a ciò si chiosava immediatamente sul fatto che «di recente si sono affacciate tesi revisioniste che contestano la ricostruzione della strage dolosa, così come il numero dei morti dichiarato dagli alleati vincitori (sei milioni), sostenendo che le morti siano state di molto inferiori e per la maggior parte procurate dalle assai precarie condizioni igieniche dei campi di detenzione e dal loro sovraffollamento. Alcuni paesi, anche in virtù di tale revisionismo storico, hanno approvato leggi che puniscono come reato la negazione dell’olocausto, ponendo, di fatto, una singolare eccezione alla libertà di parola e di stampa». L’ultima frase, per inciso, è completamente incongrua poiché sembrerebbe far dipendere l’adozione di leggi contro il negazionismo, strettamente intese come «singolare eccezione alla libertà di parola e di stampa», dal medesimo «revisionismo». Fatto che in realtà non sussiste. Poiché si deve obiettare da subito che, semmai, ciò che nel comunicato è ambiguamente definito come revisionismo (qui inteso come una rilettura radicale e a tratti capovolta del passato) nulla ha a che fare con l’introduzione, in una parte dei codici penali dei paesi europei, dell’aggravante della negazione come fattispecie penale.
Infatti, il revisionismo, come componente polemica della riflessione storiografica, perlopiù non si è esercitato sulle dimensioni numeriche dello sterminio né sulle sue effettive manifestazioni – di fatto riconoscendone quindi la sua oggettività – bensì sulle ragioni che portarono la Germania ad un crimine così tragico e inemendabile. Ciò facendo, i revisionisti sono tra quanti attribuiscono una causalità logica e storica tra la Shoah e lo sviluppo del bolscevismo in Russia ed Europa: l’evoluzione rivoluzionaria del secondo, in altre parole, avrebbe favorito le condizioni non solo per l’affermazione del nazismo come brutale reazione anticomunista ma anche la sua immediata deriva criminale, dalla quale per derivò il genocidio. Che, per l’appunto, il più delle volte non è in alcun modo ridimensionato nella sua concretezza, ma subordinato ad un quadro storico e politico dove la pressione proveniente dall’Est sarebbe risultata decisiva nell’involuzione generatasi in Europa centrale durante gli anni Trenta e Quaranta. Le leggi contro la negazione, quindi, non puniscono in alcun modo tali posizioni storiografiche, quand’anche esse possano sembrare discutibili ed opinabili. Semplicemente, dichiarano che negare non è mai un atto scientifico bensì una scelta politica che comporta precise conseguenze, intervenendo non nella libera discussione e nell’esercizio della funzione critica bensì sui principi di fondo della vita democratica.
Agli estensori del comunicato stampa andrebbe da subito ricordato come siano invece proprio i negazionisti, ovvero coloro che negano l’evidenza storica dello sterminio, ad usare il termine «revisionisti» per definire se stessi. In tale modo, infatti, occultano le proprie reali intenzioni (negare), così come si fa con la polvere sotto il tappeto, per celarsi dietro i comodi paraventi di un’astiosa polemica nei riguardi delle interpretazioni storiografiche consolidate. Delle quali dichiarano a priori una totale inattendibilità. Si tratta, a tutti gli effetti, di una strategia volutamente manipolatoria e distorcente, che crea una cortina fumogena sulle proprie intenzioni, accampando motivazioni volutamente falsificate quali il fatto che «le morti siano state di molto inferiori e per la maggior parte procurate dalle assai precarie condizioni igieniche dei campi di detenzione e dal loro sovraffollamento» per cercare di attenuare l’impatto effettivo dello sterminio razzista.
Detto questo, il comunicato stampa diffuso dalla municipalità di San Francesco al Campo per il Giorno della Memoria non ha contenuti strettamente negazionisti bensì dichiaratamente riduzionisti. In altre parole, non nega immediatamente e direttamente l’evidenza dello sterminio ma introduce, con un argomentare al medesimo tempo capzioso e cavilloso, una lettura sospettosa dei trascorsi storici. Quasi ne intendesse avvalorare una lettura per l’appunto estremamente riduttiva: qualcosa del tipo, “mai si saprà se veramente fu una tragedia spartiacque”. Ciò che sta al nocciolo dell’argomentare riduzionista, ed in immediato riflesso anche però di quello negazionista, non è mai il cancellare in tutto e per tutto il passato bensì il rimodellarlo sulla base delle proprie esigenze. Qualcosa, del tipo: “avvennero fatti straordinari ma di essi non ci rimane alcun insegnamento civile e morale. Poiché la storia è solo una collezione di tragedie”, e nessuna è “più importante” di altre. Semmai equivalendosi. Il riduzionismo, che il sindaco di San Francesco al Campo fa suo, scorre su questa linea di senso comune. Francamente, non è meno rischioso dei negazionismi propriamente intesi. Poiché si tratta di una contraffazione a tutti gli effetti. Al netto delle successive precisazioni, smentite, prese di distanza (quasi da se medesimi). Ovvero, tra atteggiamenti che accarezzano e istigano il pregiudizio di senso comune e falsa anticonvenzionalità, quella che deriva dalla denuncia di una “verità ufficiale”, che sarebbe espressa dai “poteri forti”, dai “media mainstream” e così via. La Shoah, secondo una tale impostazione, è uno dei tanti crimini del passato: continuare a richiamarne la specificità non avrebbe alcun senso, posto che di essa sappiamo solo quello che i vincitori interebbero farci sapere e pensare.
L’insieme di questo argomentare, beninteso, non è mai contraddittorio. E non rimanda neanche a confusioni o fraintendimenti. Ha quindi una sua linearità ed una concatenazione logica che si impone a quanti lo vogliano fare proprio. Il sindaco, e quindi anche quei suoi eventuali collaboratori che avessero redatto il testo del comunicato stampa da lui poi condiviso, sanno benissimo di cosa vanno parlando. Non c’è infatti bisogno di essere storici, o comunque ricercatori e studiosi di storia, per cogliere il senso del passato e, con esso, delle sue trasposizioni nell’oggi. Nonché delle sue eventuali manipolazioni. Ciò che traspare da quelle parole è pertanto sufficientemente chiaro, anche sulla scorta dei medesimi incisi (un successivo comunicato sulle pagine del sito del Comune e poi, dopo avere cancellato la dichiarazione e le cosiddette precisazioni, l’affannoso rincorrersi di interviste e interventi di merito): si vuole instillare la convinzione che i fatti, e le loro interpretazioni, siano il prodotto di una delle tante versioni possibili. Come tali, non solo legittimamente riscontrabili con il concorso delle fonti e dei riscontri ma, soprattutto, opinabili in linea di principio. Poiché si tratterebbero, per l’appunto, del risultato di una “verità ufficiale”, tale in quanto propalata per un comodo calcolo d’interesse e – in ragione di ciò – denunciabile per la sua presunta inattendibilità.
Un esercizio, quest’ultimo, di falsa critica che si formula e si impone a beneficio perlopiù di una platea di astanti scettici, se non sospettosi, quindi composta essenzialmente da antidemocratici, ossia da estranei e allergici alla democrazia. Tali poiché mai l’hanno digerita per davvero, dal 1945 ad oggi. In altre parole: il complotto dei vincitori, di cui i “vinti” del passato vanno blaterando da sempre. È esattamente questo lo spazio delle vecchie e nuove destre radicali. Che non si alimentano solo delle posizioni ideologiche più esasperate ma di uno smottamento nel senso comune. Quello che, fingendo di fare una critica allo stato delle cose esistenti, in realtà si nasconde in tale modo dietro alla polemica per portare invece avanti le vecchie tesi antipluraliste, complottiste e sostanzialmente indisposte verso la dialettica pubblica. Che denunciano come menzognera e falsificata.
Anche per questo non si può parlare, in senso stretto, di ignoranza. Chi nega – ma anche rimuove, riduce, ridimensiona, rifacendosi quindi alla trivializzazione e alla banalizzazione dei tempi trascorsi – non è identificabile propriamente con un individuo che non sappia del passato in quanto tale. Semmai è un soggetto che di ciò che è stato si è fatto una precisa idea: ovvero che lo sterminio non è mai accaduto e che il suo richiamarlo alla coscienza civile sarebbe quindi il prodotto, al medesimo tempo, di una deliberata menzogna così come di una manipolazione di cui beneficerebbero presunti burattinai. Chiunque essi siano. Poiché interessati a nascondere, alla società, la sconcertante “verità dei fatti”, quella dell’insussistenza del peggiore fatto del secolo trascorso.
Qualche considerazione a margine dell’”incidente” di cui sopra si impone ancora. In questo contesto, infatti, non va mai sottovalutato il potere del fake, tanto più in un’epoca di crescente virtualità, dove il tempo (e con esso gli eventi che lo accompagnano) sembra diventare una variabile dipendente da versioni equivalenti. La vera silloge di questa epoca, in fondo, è un relativismo assoluto, dove tutto sembra essere intercambiabile, a seconda dei gusti del momento e degli interessi occasionali. Quindi, se la questione non è l’ignoranza in senso stretto, allora si tratta dell’incapacità di fare propria quell’etica della reciprocità senza quale non c’è nessun senso della responsabilità così come dell’emancipazione. Presente e a venire.
Le polemiche sulla storia e sul passato si inseriscono a pieno titolo in questo insieme di considerazioni. Il richiamo ai temi evocati dal Giorno della Memoria non è quindi mai isolabile dal più ampio repertorio delle questioni che rimandano ad un robusto sistema delle convinzioni democratiche, piuttosto che ad un generico galateo delle convenzioni di circostanza. Poiché è quest’ultimo il vero fuoco su cui concentrare le riflessioni. Per intenderci: qualsiasi rinvio alle politiche pubbliche (ovvero al campo degli interessi collettivi, alla loro negoziazione e sintesi) non può ridursi al semplice richiamo ad una sorta di postura che evochi i “buoni sentimenti”. La democrazia non si sorregge su di essi bensì sulla consapevolezza che libertà e giustizia proprie riposano, inesorabilmente, sul rispetto degli spazi di autonomia altrui. E viceversa. In una età quale quella che stiamo vivendo, dove invece domina una sorta di idolatria dell’ego narcisista, la comprensione degli “altri da noi” (e con loro, quindi, di noi medesimi, ovvero di quanto si rispecchia in essi) è annichilita. Con essa anche dei fatti storici, piegati ad interpretazioni di comodo nel nome della “libertà di espressione del pensiero”. Va da sé che, in tale modo, le premesse di quel rispetto reciproco – ancora una volta: non un decalogo stanco e inflazionato bensì un impegno in progress, basato sul tempo presente e sul desiderio di quello a venire – rischino di venire annientate. Oggi la coesione sociale è senz’altro messa a rischio sia dai processi di globalizzazione che dall’incapacità delle democrazie sociali di dare una risposta credibile agli effetti che essi producono su società nazionali che si sentono assediate ed espropriate. In buona sostanza, si riparte da questo riscontro e non da altro.
Cosa c’entra, in tutto ciò, l’infelice comunicato stampa di una municipalità italiana in occasione di un’importante ricorrenza del calendario civile? La memoria è essenzialmente un atto politico. Ossia, implica il prendere parte alla vita associata in maniera consapevole. Chi prende parte non è mai un “tutto” ma, per l’appunto, una parte medesima. In quanto la democrazia non è totalitarismo ma somma dialettica delle diverse parti: individui, pensieri, identità e così via. Poiché gli interessi sono spesso conflittuali. Ovvero, non coincidenti. È democrazia non ciò che nega questo stato delle cose bensì il terreno sul quale si misurano le successive mediazioni. A tale riguardo, quindi, non esiste alcuna «memoria condivisa» come, invece, molti altri vanno sostenendo, in una sorta di delirio del vaniloquio. Le memorie consegnano ai posteri il senso della divisione insuperabile: quella che intercorre tra carnefici e vittime, tra vincitori e vinti, tra padroni e servi e così via. Non c’è nulla di cui sconcertarsi. Non esiste un’omogeneità a prescindere bensì un conflitto permanente – del quale ciò che appelliamo con il nome di «memoria» è parte integrante – da mediare per l’appunto attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il senso della Costituzione della Repubblica italiana è esattamente questo: costruire e rigenerare permanentemente un sistema pluralista dove il punto di incontro è costituito da percorsi di sintesi. I quali non cancellano le identità bensì offrono ad esse un codice – le norme – che va condiviso. Pena la decadenza della coesione sociale. Senza un accordo sulle norme, che incorporano in sé il sistema etico che chiamiamo con il nome di “valori”, non c’è infatti alcun futuro. Il vero problema, oggi, non è solo quello di riattivare una pedagogia civile che si adoperi contro gli atteggiamenti equivoci bensì del declino degli istituti della democrazia rappresentativa, quella al medesimo tempo sociale e liberale. Il fuoco della riflessione, quindi, deve muoversi in tale senso. Ossia, non deve interrogarsi su ciò che già mancherebbe ma su quanto potrebbe mancare di qui in avanti. Lo spazio dei radicalismi antidemocratici, della loro feroce distruttività nel nome dei fondamentalismi, degli identitarismi, dei sovranismi, si colloca in questo preciso ambito. Nessun costrutto antipluralista, illiberale e liberticida vale da sé. Semmai abbisogna del declino della comunità inclusiva. È questo, a ben guardare, il lascito delle crisi del secolo scorso. Tanto più stringente dal momento che la storia non si ripete mai ma, al medesimo, tempo, esprime calchi profondi e lunghe durate – a partire da diffuse mentalità – che si confermano anche in epoche tra di loro diverse. Soprattutto se esse ci parlano di crisi e trapassi, così come sta avvenendo oggi.
Il negare, ma anche il rimuove, il ridurre, il banalizzare, il trivializzare sono parte del processo di decomposizione di quell’accordo sulle regole per interpretare il passato, senza le quali non solo esso si relativizza ma, soprattutto, viene a mancare una prospettiva per il futuro. L’imbarazzo per un comunicato stampa più che ambiguo non si stempera con la sua cancellazione bensì riflettendo sul ripetersi di un’antica tentazione, quella per cui rimuovendo il significato civile dei trascorsi europei si potrebbe finalmente “liberare” il tempo a venire da qualsiasi ipoteca di ordine etico. Esattamente lo spazio sul quale si esercitano le componenti antidemocratiche del nostro presente.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.