Fatti e leggende intorno al candelabro a sette bracci. Che esiste nella memoria e nell’assenza
Innumerevoli miti e leggende circondano la figura della menorà, il candelabro a sette bracci, il più antico tra i simboli della tradizione ebraica. Un simbolo antico e nuovo: raffigurato sull’arco di Tito, che testimonia della repressione della rivolta ebraica culminata con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e.v., ma anche stemma ufficiale dello stato di Israele, sulla bandiera del quale campeggia un altro simbolo, molto più moderno però, come il Magen David. Nel 2009 nella località di Magdala, in Galilea, sono stati scoperti i resti di una sinagoga della prima metà del I secolo e.v.; su una pietra, ecco la menorà. In età imperiale romana sono molte le tracce lasciate dal candelabro, che compare tra i graffiti delle catacombe ebraiche, nei mosaici pavimentali di sinagoghe e in numerose monete, prese a modello tanti secoli più tardi dalla zecca israeliana per il conio dei 10 centesimi di shekel.
Si parla diffusamente della menorà in alcuni passi di Esodo/Shemot e Levitico/Wayiqrà, ma anche nel libro profetico di Zaccaria, in cui viene fatto riferimento a due rami di ulivo, uno a destra e uno a sinistra della menorà. E’ la visione del profeta il modello dello stemma dello stato di Israele, che comprende anche i due ramoscelli intrecciati accanto al candelabro. La descrizione più accurata va cercata però nella Torà. Qui leggiamo che la menorà, collocata sul lato meridionale del mishkan, la tenda in cui dimora la presenza divina che nel deserto svolge le funzioni che saranno poi del Tempio, è formata da un fusto centrale e da tre bracci su ciascuno dei due lati. Su ogni estremità, ogni sera, viene messa una lampada in modo che la luce sia rivolta non verso l’interno della tenda, ma verso l’esterno. La direzione della luce da dentro a fuori richiama evidentemente la luce divina che illumina il mondo circostante. Le lampade sono alimentate da Aharon, capostipite dei sacerdoti, con “olio puro di olive schiacciate”, un olio che possiamo immaginare di qualità ben diversa da quella del liquido destinato solitamente in antichità all’illuminazione domestica.
In Esodo 25 Mosè riceve direttamente da Dio le istruzioni per la costruzione del Tempio e dei suoi arredi, primo tra tutti la menorà. La descrizione si chiude con l’appello affinché Mosè guardi bene e esegua “in base al modello che ti è stato mostrato sul monte”. Siamo qui in presenza di due principi interconnessi. Innanzitutto quello dell’imitazione, in base a cui alla guida del popolo ebraico nel deserto viene mostrato un modello che va riprodotto fedelmente. La riproduzione puntuale, e non l’invenzione eccentrica, è l’attitudine propria del buon artigiano che la tradizione attribuisce a Mosè. L’imitazione è d’altronde possibile – ed è questo il secondo principio – perché ci troviamo calati in un mondo in cui ciò che è in basso trova corrispondenza in ciò che è in alto. Come segnalano Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri in un saggio contenuto nel recente volume La Bibbia dell’Amicizia (a cura di Marco Cassuto Morselli e Giulio Michelini, San Paolo), “in un orizzonte segnato dalla convinzione che le realtà terrene non sono altro che un riflesso delle realtà celesti, il culto terreno è visto come tzelem e demut, immagine e somiglianza, del culto che si attua nel Tempio dei cieli”.
La parola “menorà” contiene il termine or, luce, e rappresenta nello stesso tempo una concreta esigenza di illuminazione e il simbolismo di cui questa stessa luce è immediatamente portatrice. La capacità evocativa della luce come epifania del divino, tipica di numerose civiltà, ha un ruolo centrale nella cultura ebraica. Il salmo 67, dal testo breve e dal messaggio universale, viene di solito rappresentato in modo che le sue parole formino l’immagine di una menorà attraverso i bracci della quale il “Dio di tutti i popoli” diffonde luce su tutta l’umanità. Ma il candelabro, parte degli arredi del mishkan prima e del Tempio poi, di quest’ultimo può essere considerato sineddoche: una parte per indicare un tutto, tanto più dopo le due distruzioni del Santuario di Gerusalemme. Non a caso è proprio la menorà a essere tradotta a Roma nel 70 e.v. e a venire raffigurata sull’arco di Tito.
Il significato simbolico della menorà, su cui ci soffermeremo ancora, non deve far dimenticare il valore reale dell’oggetto, ricavato secondo Shemot da un talento di oro puro, circa trentaquattro chili del prezioso metallo. Il colore dell’oro richiama quello dei lumi accesi, quegli stessi lumi che secondo Zaccaria sono “gli occhi del Signore che spaziano su tutta la terra”. Secondo alcuni i sei bracci ai lati del fusto centrale del candelabro indicano i sei giorni della creazione intorno allo Shabbat. Altri pensano alle sette branche del sapere umano, oppure ai sei pianeti che gravitano intorno al sole. Filone di Alessandria, nella Vita di Mosè, propone un parallelismo tra la menorà, il sole circondato dai pianeti, la centralità di Dio nell’universo e quella di Israele sulla terra. In tutti questi casi abbiamo un punto fermo intorno a cui si dispongono punti mobili: il candelabro racchiude quindi in unità la molteplicità, fa dei molti uno solo secondo il motto latino adottato dagli Stati Uniti ex pluribus unum.
Qual è il modello della menorà, indicato da Dio a Mosè sul Sinai? E’ un albero, e in particolare il mandorlo secondo il testo biblico che parla di radice e fusto, rami e boccioli, calici e fiori. L’albero è un simbolo che evoca la forza della natura, che dal basso si slancia verso l’alto. Molti, nel corso dei secoli, hanno pensato all’etz chaim, l’albero della vita del giardino dell’Eden, o alla redenzione di cui sarebbe emblema il mandorlo, primo albero a fiorire alla fine dell’inverno, e non mancano le letture cabalistiche. La menorà richiama inoltre la descrizione del bastone fiorito di Aharon, del quale nel libro di Numeri/Bemidbar si dice che “aveva prodotto germogli, fatto sbocciare fiori e maturato mandorle”. Questi stessi frutti, protetti e nascosti da un guscio duro non commestibile, sono stati spesso protagonisti di percorsi mistici non soltanto ebraici. Non da ultimo, il candelabro ricorda il roveto ardente del monte Oreb che brucia senza essere consumato.
La menorà, scomparsa con la conquista babilonese di Gerusalemme, è stata poi ricostruita. Il miracolo dell’olio su cui si sviluppa la storia di Chanukkà prelude all’ampliamento del Tempio durante il regno di Erode e alla successiva distruzione da parte dell’esercito di Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano. Della traslazione del candelabro a Roma parlano Giuseppe Flavio e lo stesso arco monumentale fatto edificare dal vincitore in trionfo. Sembra che la menorà sia stata a Roma fino al saccheggio compiuto dai vandali, provenienti dal Nordafrica, nel 455. Qui però se ne perdono le tracce e allora la storia lascia il posto alla leggenda. E’ a Cartagine, capitale dei vandali? Oppure a Bisanzio, dove l’avrebbe condotto Belisario dopo la distruzione del regno vandalo nel 534? Stefan Zweig, nel romanzo Il candelabro sepolto (Skira) immagina che sia stato interrato infine vicino a Gerusalemme. E’ più verosimile che, come capitava sovente agli oggetti di metallo prezioso, la menorà sia stata fusa da conquistatori che ne ignoravano o ne trascuravano i significati. C’è anche chi parla di un possibile naufragio nel Mediterraneo della nave vandala che la stava portando a Cartagine. Altre voci indicano nei misteriosi sotterranei del Vaticano il luogo in cui sarebbe nascosta e non manca chi ancora oggi suggerisce che sia affondata nel Tevere durante il saccheggio del 455. Nel 1818 a Roma è stata perfino fondata una società per cercarla sotto il letto del fiume che scorre attraverso la capitale. L’impresa fallì ben presto, ma ne rimane testimonianza nei versi composti pochi anni dopo in romanesco da Giuseppe Gioachino Belli:
Mò nnun c’è più sto Cannelabbro ar monno.
Per ésse, sc’è; ma nun lo gode un cane,
Perché sta ggiù in ner fiume a ffonno a ffonno
E’ difficile accettare che un simbolo come la menorà possa semplicemente sparire. Il gomitolo di storie fantasiose che lega come in un viluppo il candelabro dai sette bracci è allora una risposta a questa difficoltà. Le storie intorno alla menorà, insieme a preziose testimonianze antiche e a interessanti falsi moderni, sono state messe in sequenza nel 2015 in una mostra organizzata dai musei vaticani con la collaborazione del museo ebraico di Roma. La menorà non è scomparsa: esiste non sotto il fondale limaccioso del Tevere, ma nei recessi della memoria e nella speranza di chi non si è rassegnato alla sua perdita. E’ l’assenza la madre dell’aspirazione.