Dopo 25 anni di assenza, la nuova edizione del libro per la casa editrice Vanda
Golda Meir è stata una figura straordinaria nella storia di Israele. È finalmente in arrivo la sua autobiografia in italiano, riproposta dopo venticinque anni di assenza dal mercato nazionale e disponibile da marzo (ma si possono già prenotare le copie sul sito della casa editrice Vanda. Il libro, bestseller nel mondo e pubblicato in quaranta paesi, preceduto da un’introduzione di Anna Momigliano, offre uno sguardo approfondito sul percorso esistenziale e sul ruolo di primo piano nella politica israeliana di questa donna eccezionale.
Golda racconta la sua infanzia in Ucraina, quando a tre anni e mezzo, ricorda di aver sentito parlare di un pogrom che stava per arrivare, stringendo le mani della bambina che abitava di sopra e osservando i genitori che si affannavano a barricare l’ingresso con le assi di legno. E soprattutto ricorda di aver avuto coscienza che questo le accadeva perché era ebrea, una sensazione che avrebbe provato altre volte: il timore, la frustrazione, la consapevolezza di essere diversa e la profonda certezza che se voleva sopravvivere in un mondo ostile non sarebbero bastate quattro assi di legno. Bisognava darsi da fare in prima persona. L’avvicinamento al sionismo era avvenuto proprio per quell’infanzia fatta di terrore. Nel 1905, l’anno in cui erano partiti, circa seicento villaggi e città erano state distrutte dalla furia antisemita.
La passione per questi ideali però era esplosa solo nel 1921 quando insieme al marito Morris dall’America era arrivata in Palestina. Avevano trovato un paese sporco, affamato, pieno di mosche e zanzare, con condizioni di vita primitive. A Milwaukee era bello parlarne, sognare un’esistenza da pionieri ma qui era tutt’ altra storia. “Se si vuole davvero una patria, se la si desidera, si deve essere pronti anche a questo” aveva però ribattuto subito lei a chi si lamentava e voleva tornare indietro. E con Morris si erano stabiliti in uno dei primi kibbutz, quello di Merhavyah. All’inizio le sabre, le donne nate sul posto, l’avevano vista come una borghese, una yankee, completamente inadatta alla vita dura della comunità. La prendevano in giro perché schifiltosa riguardo al cibo. Ma lei non era certo tipo da farsi mettere i piedi sulla testa. Si era rimboccata le maniche e si era data da fare. I kibbutz erano stati il fulcro dell’ideologia socialista in Israele e Golda ci si era lanciata con entusiasmo; nel ’28 aveva aderito al’unione delle donne lavoratrici e poi aveva fatto una rapida carriera prima nel partito Mapai, il movimento dei lavoratori israeliani, e in seguito diventando capo del sindacato dell’Histadrut. Per anni si era battuta per la creazione di una comunità che salvaguardasse il sostentamento e il futuro degli ebrei di Palestina. Ma tutto questo impegno alla fine aveva minato la vita privata, il suo matrimonio con Morris di lì a poco era giunto al capolinea. In realtà lo sapevano tutti e due, appena arrivati, che Golda non avrebbe mai tradito la sua vera vocazione, costruire lo stato. Che quello con la politica era il matrimonio più autentico, destinato a durare tutta la vita. Ma anche questa unione non era stata certo più semplice di quella precedente.
Erano seguiti anni duri, pieni di soddisfazioni ma anche di lotte accanite. Aveva affrontato il problema dell’immigrazione degli ebrei dall’Europa durante il nazismo, aveva combattuto contro gli inglesi e alla fine il 14 maggio 1948 aveva anche visto proclamare – finalmente – il nuovo stato. “Lo Stato d’Israele! Mi ritrovai con gli occhi pieni di lacrime e le mani tremanti. Avevamo fatto nascere lo Stato ebraico e io Golda Mabovitch Meyerson ero vissuta tanto da vedere quel giorno”.
La felicità però era svanita subito: la mattina del 15 maggio, dopo poche ore di vita, Israele già subiva l’attacco degli egiziani a sud, della Siria e del Libano a nord, della Giordania e dell’Iraq ad est. Da quel momento era stato un continuo alternarsi di eventi, di cadute e risalite. E ogni volta, dopo la distruzione, bisognava ricostruire. Non si era certo risparmiata.
Alla fine del primo conflitto, eletta Ministro del lavoro, aveva lottato per creare nuovi alloggi, per accogliere gli immigrati. Erano nate nuove città e con loro nuovi problemi di convivenza, di sopravvivenza. Nuovi conflitti, nuove tensioni. Guerre, ancora guerre…
La pace verrà quando gli arabi ameranno i loro bambini più di quanto odino noi. La pace verrà quando un leader arabo sarà abbastanza coraggioso da desiderarla”.
“Quando verrà la pace, riusciremo a perdonare gli arabi per avere ucciso i nostri figli, ma forse non riusciremo a perdonarli per averci costretto ad uccidere i loro”.
“La pace verrà quando tenderemo la mano e non troveremo un pugno chiuso.
Per anni quella parola, pace, l’aveva gridata e l’eco le aveva risposto sempre “guerra”. Per anni aveva temuto per l’uccisione dei suoi figli, per le continue minacce di chi non voleva riconoscere Israele. Per anni aveva provato la stessa rabbia impotente di quando bambina suo padre inchiodava due assi di legno per difenderli dai pogrom. Eppure non le era mai mancata la forza di reagire, in prima persona. La forza era sempre lì, dentro di lei. Ne aveva avuto bisogno quando le avevano chiesto di fare il Primo Ministro. All’inizio era scappata, si era rifiutata. Era già anziana, già malata. No, aveva detto seccamente chiudendosi dentro al suo ufficio. Ma poi erano stati proprio i figli a a convincerla ad accettare: forza imma, le avevano detto, non hai scelta! Rimboccati le maniche! Avanti, lotta!
Avere 70 anni non è peccato, ma non è neppure uno scherzo. La vecchiaia è come un aereo che viaggia durante un temporale. Una volta che sei a bordo, non c’è nulla che puoi fare. Non puoi fermare l’aereo, né il temporale, nè la vecchiaia. Divenni primo ministro perché le circostanze lo imponevano, esattamente come il mio lattaio si trovò a comandare una posizione avanzata sul Monte Hermon. Nessuno di noi due desiderava particolarmente la sua mansione ma entrambi facemmo del nostro meglio.
Fu primo ministro dal 1969 al 1974. Sapeva che avrebbe dovuto prendere decisioni condizionanti per milioni di persone come quando nel settembre del ’72 nove atleti furono rapiti e uccisi da un commando arabo alle Olimpiadi di Monaco; oppure quando il 6 ottobre 1973 gli arabi attaccarono nel giorno dello Yom Kippur all’improvviso e lei fu accusata di rispondere troppo tardi e con un’insufficiente preparazione. Centinaia di giovani uccisi. Le facce dei familiari. Gli insulti dai giornali di tutto il mondo. Il rimorso la perseguitò tutti i giorni, sempre, non la lasciò mai. Dopo la guerra dello Yom Kippur, la sua vita non fu più la stessa.
Questa autobiografia offre un’ occasione importante per chi non conosce la biografia della Meir: offre una prospettiva personale sulle sfide politiche e sociali affrontate da Israele durante quel periodo e sulle lotte personali fatte da Golda come leader del paese. È una lettura affascinante per chiunque sia interessato alla storia di Israele, alla politica mondiale ma anche al ruolo delle donne nella leadership politica. Golda Meir chiese di non essere rieletta alla fine del suo incarico, di non tentare di dissuaderla per farle cambiare idea. Passava il timone a un certo Yitzak Rabin, un sabra, nato a Gerusalemme l’anno prima che lei e Morris vi arrivassero. “Sono sicura che saprà come guadagnarsi la fiducia del popolo ebraico, come noi abbiamo tentato di fare in tutti questi anni”. Quello fu il primo mandato di Rabin. Come si sia concluso l’ultimo, nel 1998, purtroppo lo sappiamo bene.
Golda Meir, La mia vita, prefazione di Anna Momigliano, 35 euro, in libreria dal 16 marzo