Levi e Grossman, pur non essendosi mai conosciuti di persona, sembrano dialogare a distanza su almeno quattro fronti: l’ebraismo, la descrizione realistica e antiretorica della Shoah, la scienza e l’attività dell’uomo come impegno
Primo Levi e Vasilij Grossman non si sono mai conosciuti di persona. Ma Levi ha potuto leggere Grossman in lingua italiana? In linea teorica sì, anche se purtroppo manca ancora un regesto della sua biblioteca e dunque delle sue probabili letture, e perciò in assenza di chiare indicazioni contenute in testi e interviste si possono fare al massimo delle ipotesi. Di Grossman in italiano, prima della recente pubblicazione di diverse opere da parte dell’editore Adelphi, sono usciti Tutto scorre… nel 1971 (Mondadori) e Vita e destino nel 1984 (Jaca Book).
In realtà è molto probabile che Levi non abbia letto nulla di Grossman, autore tutt’altro che noto fino a pochi anni fa. La questione potrebbe sembrare tutto sommato marginale, invece non è così. Infatti Levi e Grossman sembrano dialogare a distanza su almeno quattro fronti. L’ebraismo, la descrizione realistica e antiretorica della Shoah, la scienza e l’attività dell’uomo come impegno. Una prima iniziativa che in anni recenti ha suggerito l’accostamento tra i due autori è il reading teatrale realizzato nel 2017 da Valter Malosti in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, il Centro Internazionale di studi Primo Levi e lo Study Center Vasilij Grossman. Lo spettacolo, presentato al teatro Carignano per la Giornata della Memoria, consisteva in letture alternate dal Rapporto su Auschwitz redatto da Levi con Leonardo Debenedetti pochi mesi dopo la liberazione e L’inferno di Treblinka, breve reportage scritto nel 1944 da Grossman, tra i primi a entrare nell’ex campo di sterminio come giornalista dell’Armata rossa.
Dopo la pubblicazione in inglese, un anno fa è uscito finalmente anche in Italia Stalingrado, prima metà di un dittico che comprende nella sua seconda parte il già noto Vita e destino. Un romanzo meno politico del seguito e tuttavia meraviglioso, tanto più se si pensa al momento in cui è uscito, gli ultimi mesi del regno del terrore di Stalin. Difficile è descrivere lo stupore che coglie il lettore quando arriva a pagina 168, e poi di nuovo alle pagine 220 e 225. Perché si tratta di passi vicinissimi a pagine di Primo Levi. La somiglianza dei contenuti e delle immagini utilizzate per descriverli è addirittura stupefacente. I passi di Stalingrado riguardano riflessioni dei due alter ego di Grossman, il fisico ebreo Strum e il commissario politico dell’Armata rossa Krymov (che in Vita e destino finirà alla Lubianka). Quelli di Levi lo stesso scrittore che si ritrae giovane liceale nel racconto del Sistema periodico Idrogeno.
Il mistero della natura – Il primo elemento che accomuna i due testi è l’immagine della natura come mistero e della chimica come chiave per aprirne la porta. “Per me”, scrive Levi, “la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai”. Fin dalle prime righe del racconto Levi si dice affascinato dalla chimica, dal laboratorio, dall’amico Enrico (che del laboratorio del fratello maggiore possiede le chiavi). “Il mistero più profondo della natura aveva una poesia immensa”, scrive Grossman. Nella ricerca sull’energia del nucleo e degli elettroni Strum è incantato da “piccole stelline viola” che “si accendevano sullo schermo scuro; sfrecciando, le particelle invisibili lasciavano dietro di sé scie brumose di vapore addensato simili a code di cometa; l’ago sottile di un elettrometro ultrasensibile fremeva, rilevando la scossa provocata da diavoli invisibili dotati di forza e velocità folli”. Il mistero e la potenza della natura, poeticamente, dopo un esperimento andato male tornano nella frase con cui Idrogeno si chiude (come in Grossman, con una menzione delle stelle): “Era proprio idrogeno, dunque: lo stesso che brucia nel sole e nelle stelle, e dalla cui condensazione si formano in eterno silenzio gli universi”.
Domare Proteo – Entrambi, Levi e Strum/Grossman, cercano una legge in grado di stabilire nella natura un ordine. La legge del Sinai, per Levi, cioè “l’ordine in me, attorno a me e nel mondo”. Procedere dall’oscuro al chiaro, che per Levi non è solo il compito della scienza ma anche un’immagine della scrittura, scrittura-chimica in grado di soppesare, ridurre, ripulire parole. “Saremmo stati chimici, Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre forze”, continua lo scrittore torinese. L’obiettivo è domare la natura: “Avremmo stretto Proteo alla gola”, quella divinità marina che nella mitologia greca sfugge alla presa cambiando continuamente aspetto. “Lo avremmo costretto a parlare”, avremmo cioè costretto la natura stessa a rispondere agli interrogativi dell’uomo, quegli interrogativi che la scuola fascista ispirata dal neoidealismo con le sue “metamorfosi inconcludenti” evita accuratamente di porre. Anche per Grossman la natura è costituita da un ribollire di forze sconfinate e riottose che tentano di sottrarsi all’opera chiarificatrice dello scienziato. “Sotto la superficie della materia”, riflette Strum, “ribollivano forze possenti. I lampi sullo schermo scuro, lo spettrografo di massa che misurava la carica del nucleo, l’annerimento di una lastra fotografica: erano queste le prime spie di forze gigantesche che si agitavano nel sonno per poi riassopirsi…”. Levi e Grossman fanno ampio uso di immagini poetiche condensate al massimo per evitare la lingua retorica dell’inganno. Entrambi si propongono di indagare sotto la superficie di oceani incontaminati, “abisso senza fine in cui da secoli sonnecchiano mostruosi lucci e pesci siluro”, medita Strum. E lui, Strum, “voleva guardarci, sotto quella superficie verde, voleva rimestarla, voleva sollevare l’enorme mostro dall’abisso fangoso e portarlo alla luce”. I due scrittori, come si vede, condividono la medesima intuizione. Ma soprattutto – ed è questa la vera sorpresa – la descrivono in modo analogo, evocando immagini simili. C’è una evidente somiglianza di famiglia tra il mostro marino Proteo e i pesci siluro di abissi finora inesplorati. La scienza è la chiave indispensabile per penetrare il mistero, la lotta dell’uomo contro forze che gli sfuggono difficile. La natura con i suoi elementi, scrive Levi, è “il primo nostro avversario”, un avversario da affrontare in combattimento serrato. I suoi sortilegi saranno infine spezzati, i misteri rivelati! La hule, materia informe, va messa alle strette subito, senza perdere tempo: “Non ci potevamo permettere di sprecare occasioni”, dice Levi. E Strum/Grossman, ugualmente senza indugio, perché “proprio quel regno sordomuto di quanti e protoni racchiudeva l’essenza più sublime della materia del mondo”.
Un ponte tra teoria e prassi – A Strum lo studio all’università non basta più e si fa assumere come operaio in una fabbrica chimica di vernici – guarda caso proprio lo stesso tipo di fabbrica in cui per trent’anni ha lavorato Primo Levi. Nel frattempo Strum continua gli studi, diventerà fisico teorico. Nel suo laboratorio, gli capita di avere “l’impressione che la vita gli scorresse accanto, mentre lui voleva esserne parte, voleva coniugare il suo lavoro di ricerca con ciò che avveniva nelle fabbriche, nelle miniere, nei cantieri”. “Cosa sapevamo fare con le nostre mani?”, si chiede Levi. “Niente, o quasi”: le mani infatti sono “rozze e deboli”, “la parte meno educata dei nostri corpi”. Ma se l’uomo è artefice – homo faber -, la conclusione di Levi è che “non eravamo uomini”. Per diventare uomini la scuola fascista zeppa di astrazioni non serve, anzi, è parte del problema perché con i suoi estetismi programmaticamente spinge al disimpegno, alla sudditanza ai dogmi di regime. E quella della Russia di Stalin con il suo realismo stantio e il nuovo nazionalismo non è poi molto diversa. Quello che serve, per diventare uomini, è gettare un ponte sull’abisso artificiale che separa teoria e prassi. È quanto si propone Strum, che “voleva costruire un ponte tra la fisica teorica e la nobile fatica di milioni di operai”. L’impegno, di cui la manualità è la più immediata manifestazione, è attività plasmatrice con cui l’uomo afferma la propria libertà sfidando lo stato totalitario, nuovo Behemot e Leviatano insieme. È lo stesso lavoro delle mani con cui in FerroSandro, il taciturno che “non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo”, senza timore attacca la roccia, sfida la montagna. Le mani sulla roccia, come la chimica e la fisica, sono per Primo e Sandro “l’antidoto al fascismo” in quanto discipline “chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali”. Il primo passo verso l’opposizione a regimi liberticidi si compie mettendosi in gioco in prima persona.
Il circolo della vita – Sappiamo che Levi per decenni ha meditato sull’idea di scrivere un racconto sul carbonio, “elemento della vita”. Ad esso, nel racconto omonimo posto a conclusione del Sistema periodico, “era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto”. Nell’anno di prigionia prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, luogo della morte, viene concepito dunque il progetto di raccontare la vita nella sua componente minima, il suo lievito madre. In Carbonio seguiamo le vicende di un atomo e con esso veniamo proiettati all’interno dell’epica delle trasformazioni incessanti della materia, un circolo vorticoso della vita e della morte dove quest’ultima consiste di fatto non in una scomparsa definitiva ma in mutamento di forma nella continuità. Levi è autore di questa epica minore con voce “foible, et même un peu profane”, fioca e un po’ profana, come spiega nell’esordio; la medesima voce fioca e profana di Strum, che non è nato combattente anche se reagisce alle ingiustizie. Strum è uno scienziato schiacciato tra le maglie d’acciaio dello stato, mostruosa divinità moderna e totalitaria in grado di innalzare e annientare con la medesima rapidità, la medesima brutalità, il medesimo capriccio. La sua vita, come quella di milioni di altri, non vale molto nella Russia di Stalin. “Per quanto provi a distruggerla”, gli dice il suo maestro Čepyzin, “l’energia è eterna. Irradiata nello spazio, l’energia del Sole attraversa deserti di buio e riprende vita tra le foglie di un pioppo, nella linfa di una betulla, si nasconde nella forza intramolecolare dei cristalli, nel carbon fossile. È il lievito madre della vita”. E Levi, nell’ultima pagina di Carbonio, dopo aver fatto viaggiare l’atomo dalla roccia alla linfa alla foglia al carbon fossile: “Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che, da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato”, come nel canto di Pesach Chad gadyà.
Le rane come espediente – Quello che stupisce leggendo Levi e Grossman è una modalità di argomentazione affine e che tanto deve al modello della scienza, che in entrambi coinvolge la scrittura e il pensiero in generale. Non è raro imbattersi nei loro testi in applicazioni originali di principi scientifici. Basti un solo esempio. “Semënov adocchiò una piccola trincea e sorrise: ‘Noi autisti ce la caviamo sempre’ disse. ‘In una divisione uno aveva rotto il condensatore e aveva perso pure il ricambio. All’officina c’è arrivato con le rane: ne ha dovute prendere un bel po’, certo, che una gli durava solo cinque chilometri’”. Se non ci fosse un nome russo a fare da spia, il brano potrebbe benissimo passare per leviano. La curiosità, l’attrazione per il bizzarro, l’arguzia e la ricerca dell’espediente emergono peraltro in continuazione nell’opera di Levi.
Siamo proprio certi che Levi non conoscesse Grossman? Sicuramente i due non hanno mai avuto contatti. Vita e destino, la seconda parte della dilogia introdotta da Stalingrado, è stata pubblicata in italiano nel 1984, è dunque possibile che Levi l’abbia letta. Siamo comunque diversi anni dopo la pubblicazione del Sistema periodico e ancora di più dalla scrittura di Idrogeno. E in ogni caso non si tratta di Stalingrado, disponibile in italiano soltanto dal 2022, nel quale si trovano tutti i passi che abbiamo citato. Sappiamo però che Levi leggeva molto in lingue diverse dall’italiano come francese, inglese e tedesco. Dobbiamo dunque chiederci se negli anni sessanta esistevano di Stalingrado edizioni in una o più di queste lingue. In francese e in inglese non ne esistono, c’è invece un’edizione tedesca del 1961 pubblicata con il titolo Wende an der Wolga, letteralmente “svolta” o “inversione sul Volga”. Ma la possibilità che Levi abbia letto il libro, se ne sia ispirato e non ne abbia mai parlato in conversazioni, interviste e interventi è francamente remota. Fino a prova contraria, meglio parlare di una straordinaria somiglianza di famiglia.