Dialogo con rav Haim Fabrizio Cipriani a partire da nuove preghiere composte nei giorni della pandemia
In questo periodo così funestato dalla pandemia si cercano risposte, spiegazioni e conforto. E la preghiera è una strada possibile. Infatti sono comparse nuove preghiere, pensate su misura, in varie parti del mondo, tra cui una piccola raccolta, tutta americana, che abbiamo trovato su The Forward e abbiamo ripubblicato in questo articolo:
Cinque nuove preghiere ebraiche
Le abbiamo tradotte in italiano dall’inglese e questo ci ha posto la prima domanda: è possibile pregare in una lingua diversa dall’ebraico? Quindi una serie di altri quesiti, dalla possibilità di aggiungere nuove preghiere a quelle previste dalla liturgia fino a quale sia la funzione della preghiera nell’ebraismo. Ne abbiamo parlato con rav Haim Fabrizio Cipriani.
“Non è una novità pregare nella lingua vernacolare. Anticamente quando si trattava di accompagnare un pubblico molto vario e non abituato alla liturgia tradizionale si usavano testi per esempio in yiddish o in spagnolo . E ora che siamo in una situazione particolare in cui le persone cercano una risposta emotiva importante si fa capo a questa tradizione. Dal punto di vista normativo qualsiasi preghiera può essere detta in qualsiasi lungua. Alcuni codici fanno una distinzione tra pubblico e privato, restringendo la pratica della preghiera in lingue diverse dall’ebraico alle sole situazioni private. Risale a un’epoca successiva a quella del Talmud, a quando la diaspora si assimila molto alle culture locali perdendo l’uso dell’ebraico, con il rischio di trasformare la liturgia in qualcosa di poco unitario. Ma a ben guardare, alcune preghiere, compreso il Kadish, sono in aramaico, la lingua vernacolare pretalmudica. La ragione di questo è che il Kadish era in origine la preghiera che chiudeva le sessioni di studio, che si svolgevano nella lingua vernacolare”.
Ci sono stati poi nella storia tentativi nella diaspora di abbandonare l’ebraico per rendere la liturgia comprensibile a tutti?
”Nell’800 in Germania, il nascente movimento riformato si battè molto su questo tasto, al punto che l’ebraico venne quasi soppresso. Rimase solo l’inizio dello Shemà in ebraico, poi tutto il resto veniva pronunciato in tedesco. Questo naturalmente creava delle frizioni con la corrente moderata da cui è poi nata quella conservative, che invece non voleva rinunciare all’ebraico nella liturgia, considerandolo un segno culturale fondamentale. Allora si sono aperte altre considerazioni. Posto che l’uso della lingua è molto importante, la domanda seguente è se sia più importante avere una comprensione generale tralasciando il dettaglio ma mantenendo l’ebraico o meno. Per i Chabad ad esempio è necessario pregare in ebraico e usano moltissimo la traslitterazione, con il rischio però che prevalga sul significato l’importanza di pronunciare quei suoni. Ma in testi come l’Haggadah, per esempio, che hanno valore pedagogico i concetti sono più importanti dei suoni. Dunque è importante l’ebraico ma è importante permettere a tutti di capire e di esprimersi liberamente. Ecco perché oggi può avere senso comporre preghiere nelle lingue locali”.
Una pratica in uso?
“Sì. Io per esempio ho fatto una parafrasi dell’Amidah in italiano che raggruppa le 19 preghere per chi non seguirebbe quelle in ebraico, una pratica che fa riferimento alle kavanot, le intenzioni: sono delle meditazioni nella propria lingua sulla preghiera (recitata in ebraico) che si andrà a dire, affermandone i concetti salienti”.
Ma è possibile aggiungere una preghiera?
“Nella tradizione si è sempre fatto, di solito adattando frammenti di preghiere pre esistenti o attingendo dai salmi, in ogni caso, le preghiere personali vanno aggiunte in punti specifici della liturgia comune. Il fatto di comporre preghiere ex novo non è molto comune ma non è proibito. Diciamo che l’ebraismo dal Medioevo in avanti è stato poco creativo, con qualche eccezione nel ‘500 con i mistici di Safed. A loro si deve la creazione di Lekhah Dodì, oggi cantata in tutte le sinagoghe il venerdì sera, ma originariamente cantata in giro per la città e in particolare sulle mura dai mistici. All’epoca non era una pratica ben vista, anzi molto osteggiata, poi, per la bellezza della melodia, un secolo dopo venne aggiunta alla liturgia e probabilmente si tratta dell’ultima addizione importante. Discorso opposto è quello del Kol Nidrè che i rabbini volevano togliere per non alimentare il pregiudizio contro gli ebrei. Nell’800 infatti venivano accusati di rinnegare le promesse fatte proprio nel giorno più sacro del loro calendario. Allora si cercò di adattare altri testi a quella stessa melodia: un caso di scomposizione della preghiera. Che naturalmente non ha funzionato. Oggi, in particolare negli Stati Uniti, si assiste a una maggiore creatività che secondo me va incoraggiata perché stimola la riflessione”.
Qual è il ruolo della preghiera nell’ebraismo?
“Difficile rispondere in maniera breve: il mio ultimo libro è incentrato su questo… (Schiudi le mie labbra, Giuntina, ndr) Ma ci provo. La preghiera serve a garantire il minimo sindacale nello studio quotidiano. In questo modo le persone ripetono determinati concetti importanti per l’ebraismo e avviene anche una alfabetizzazione rispetto alla scrittura. La possibilità di innestare delle preghiere personali in una lingua diversa dall’ebraico in alcuni punti della liturgia consente di abbinare la componente della storia comunitaria insieme a qualcosa di personale. In ebraico il verbo pregare è riflessivo: ci si prega. Perché nella preghiera è insita la formazione della persona (che appunto viene alfabetizzata sulla scrittura ma anche sui concetti cardine), grazie alla possibilità di specchiarsi, dunque confrontarsi con i quadri proposti. Dunque il singolo cresce confrontandosi con la preghiera. Ben di verso è chiedere alla trascendenza divina di fare qualcosa”.
Ecco, infatti, intravedo questo rischio nelle preghiere di nuova composizione, soprattutto in quelle nate ai tempi del covid-19…
“Da tempo si assiste a un ritorno a qualcosa che abbia a che fare con la trascendenza. In effetti concordo che il rischio sia quello, nel comporre nuove preghiere in momenti di difficoltà come quello presente, di avvicinarsi a pratiche tipiche del cattolicesimo e vicine in qualche modo a un neopaganesimo: intercedere per ingraziarsi una divinità un pochino capricciosa. La necessità di fare qualcosa di speciale in momenti speciali (compresi i digiuni per esempio) è comprensibile, ma può comportare delle deviazioni. Si tende a colpevolizzare l’uomo per qualcosa di cui non è colpevole, magari esacerbando alcuni comportamenti, come per esempio nella società haredì si chiede alle donne di essere maggiormente pudiche… Se nell’ebraismo ci si è sempre abbastanza salvati da questo, ora il rischio sembra essere più evidente. Altro è restare in contatto con la tradizione leggendo, studiando e interpretando le parti più complesse e meno comprensibili a chi le approccia in questa epoca. Il percorso è sicuramente più difficoltoso perché richiede continue correzioni, ma va verso una lettura postmoderna della tradizione. Per me, una sfida interessante”.
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.