“Talelei Razon”, le “rugiade propizie” indicate nell’amidah fanno da titolo a questo libro, una raccolta di versi che parla in italiano e comunica in ebraico
«Barechénu H. Elokénu Bechòl Ma’assé Yadénu Uvarèch Shnaténu BeTaleléi Razòn» «Benedici Signore nostro Dio ogni nostra opera e benedici i nostri anni con rugiade propizie…», con queste parole gli ebrei invocano, nella versione estiva della Amidah, la benedizione divina sui campi e sulla vita, chiedendo al Signore di benedire l’anno con “rugiade propizie”. L’Amidah, in ebraico: תפילת העמידה, significa letteralmente “Preghiera in piedi” o “Preghiera in posizione eretta”, ed è una delle preghiere quotidiane della religione ebraica. Telelei razon (rugiade propizie) è il titolo del libro di Ariel Viterbo, pubblicato dalla casa editrice Cleup alla fine del 2020.
La forza espressiva delle poesie prorompe fin dalla lettura del titolo, che ci conduce immediatamente nello spazio della precarietà umana, analogamente ai contenuti di tutta l’opera. Un viaggio, quello che ci consente di fare Ariel Viterbo, all’interno dell’uomo, delle sue debolezze e delle sue fragilità, un percorso delicato e a tratti silenzioso, fatto di numerose pause in cui la riflessione del lettore stabilisce una continuità con il fluire delle parole. Già a partire dal titolo siamo naturalmente invitati ad effettuare una riflessione linguistica sulla grande operazione compiuta dall’autore, che utilizza parole ebraiche per un libro di poesie scritte in italiano. Infatti, Ariel Viterbo è un ebreo veneto, emigrato in Israele a vent’anni, dove continua a vivere la cultura italiana, parlando, leggendo e scrivendo nella lingua madre. L’utilizzo dell’italiano e dell’ebraico insieme apre la strada a diverse percezioni semantiche ed emozionali: il lettore da un lato comprenderà il sentimento e il dolore del poeta, dall’altro diventerà partecipe della preghiera interiore dell’autore.
Quelle che ci troviamo tra le mani sono poesie che si leggono tutte d’un fiato, che scorrono leggere sotto gli occhi del lettore, ma di cui ogni parola, ogni verso devono essere meditati con attenzione: è l’essere umano che parla e si espone, attraverso la magia creatrice della parola, assecondando il fondamentale bisogno dell’uomo di esprimersi, di esprimere ciò che prova attraverso il linguaggio della poesia. Un linguaggio capace non solo di comunicare, ma spesso di mettere in contatto spirituale l’autore e il lettore, in un dialogo muto, fatto di pensieri e di emozioni. Il poeta offre il suo universo simbolico, il lettore ne comprende il valore avventurandosi in un labirinto che lo conduce all’uscita solo dopo aver esplorato tutte le sfaccettature delle sensazioni che gli si offrono.
I temi affrontati da Ariel Viterbo nelle sue poesie sono diversi: in primo luogo riguardano il complesso rapporto tra l’uomo e Dio, un Dio a volte misericordioso, a volte indifferente, a volte stanco di ricevere preghiere: “Un Dio clemente la cui misericordia è finita troppo presto”, ma un Dio a cui va il ringraziamento anche “per i miracoli che non ha fatto”, a cui si affida nonostante tutto. L’ispirazione alla religiosità trascendente è intrisa di un misticismo quasi fatalista unito all’inquieta e profonda considerazione dell’umana vicenda. Il parlare con Dio avviene attraverso la preghiera: ecco un altro tema cruciale che l’autore affronta con uno sguardo perplesso sul senso del pregare, la preghiera che si fa amara riflessione, in cui possiamo tra le righe leggere a tratti l’intera storia dell’uomo, conosciuta da sempre ma che è da sempre soggetta a numerosi interrogativi, e forse è proprio la difficoltà a dare risposte certe a spingere l’uomo ad andare avanti, “per questa paura, per questa speranza”, per queste incertezze, aggiungeremmo, e per l’inesauribile capacità di adattamento che è insita negli esseri umani.
“Il Tuo nome sarà
molto al di sopra
di tutte le benedizioni
shiratà tushbechatà
il mio lo nascondo
senza lodi,
senza consolazioni
e voi dite Amèn”.
Nella poesia qui riportata, intitolata Amèn, le parole ebraiche e aramaiche sono tratte dal testo del Kaddìsh, la preghiera della liturgia ebraica che si recita più volte al giorno, in particolare da chi si trova nell’anno di lutto per la morte di un genitore.
Shiratà tushbechatà, espressione che si riferisce ai cantici e alle celebrazioni, grazie alla sua trasposizione poetica, acquisisce un valore quasi profetico, che preannuncia il voler nascondersi del poeta, per ritrovarsi nelle vesti di uomo che si racconta: figlio, padre, uomo di fronte alla donna “in un legame che è puro senso di vita, in un legame che né la Poesia né la Storia né la Bibbia hanno mai trascurato”, scrive Maria Beatrice Ferri nella prefazione.
Inoltre il poeta ci conduce, quasi per mano, nell’intricato labirinto che è il rapporto con la donna, che completa la vita dell’uomo, la propria donna, ma che concentra nella propria essenza l’amore e il desiderio di tutti gli uomini per tutte le donne amate di un sentimento profondo La figura femminile si rivela qui per la sua corporea e tangibile bellezza, capace di sedurre e di parlare con delicatezza ai sensi e alla fantasia del poeta.
Infine, il tema del passare ineluttabile del tempo, che lascia sull’uomo le tracce e i segni del proprio scorrere: dopo infiniti anni, arriva la stanchezza, e la rassegnazione nel vedere il proprio corpo trasformato, sfinito dal peso di un’esistenza, dopo anni arriva “l’attimo inesorabile in cui deciderai se ci sarà domani”.
Tutto è attraversato dalla consapevolezza della solitudine, ma anche della fratellanza tra uomini in una storia che li accomuna tutti, infatti come dice Maria Beatrice Ferri nella prefazione, “tutti gli alberi genealogici hanno rami legati tra loro, rami che riportano al passato ma che si aprono anche verso il futuro”.
Nel leggere le poesie di Ariel Viterbo ci troviamo dentro un insieme affascinante di immagini, allusioni e associazioni di idee che innescano antiche consonanze tra uomo e uomo, uomo e Dio, uomo e vita, nel continuo tentativo di elevarsi verso forme più compiute di esistenza. Qui, ritroviamo frequentemente un senso profondo, ma ottimista del vivente nella sua caducità, nella sua finitezza: questo risuona in una forma sentimentale, che si fa creazione pura nel suo “agire” poetico, con cui ha scarnificato la lingua madre, fino a riuscire a fonderla con l’altra sua lingua, più musicale e malinconica, che è l’ebraico.
Analisi profonda e condivisibilissima, che tocca gli aspetti principali di questa poesia di Ariel Viterbo, pervasa da un sentimento del religioso nella ricerca, nelle immagini, nei suoni, nei silenzi….