Viaggio nelle memorie ebraiche della cittadina
L’avevano voluta grande e maestosa, incastonata tra gli edifici civili ma bene in vista nel pieno centro cittadino, nell’area di quello che era stato il ghetto. Una volta ottenuta la tanto attesa emancipazione, giunta nel 1848 con la concessione dei diritti a tutti gli ebrei del Piemonte da parte di Carlo Alberto, la comunità di Alessandria aveva pensato di dare un segno tangibile della sua posizione in città. E quale simbolo più alto di un tempio finalmente distinguibile, che entrasse quanto le loro vite a pieno titolo nel paesaggio urbano e nella società cittadina?
Oggi quella splendida costruzione ha finalmente riaperto le sue porte in via Milano 7, dopo quasi tre decenni di chiusura. Era dal 1994, dall’esondazione del Tanaro del 6 novembre, che la sinagoga di Alessandria versava in brutte condizioni. Non troppi anni prima era stata restaurata, ma i danni dell’inondazione ne avevano imposto l’inagibilità.
Lo scorso 6 novembre, a 28 anni esatti da quel brutto giorno, le autorità religiose, politiche e militari del Comune e della Regione si sono riunite nella splendida sala di preghiera del tempio finalmente rinnovato. Nel corso della celebrazione di riapertura l’architetto che ha curato i lavori, Andrea Milanese, ha illustrato i numerosi interventi che sono stati necessari e che sono costati complessivamente circa due milioni e mezzo di euro. Dal pavimento alla copertura, si è dovuto mettere mano all’intera struttura dell’edificio. Un’operazione che ha rivelato tra l’altro il soffitto settecentesco di una sala preesistente. Ora questi preziosi pannelli dalle belle decorazioni dipinte sono esposti nelle sale del piano terreno destinate a museo, con una mostra permanente che racconta la storia dell’ebraismo con oggetti sia sacri sia quotidiani provenienti perlopiù dalla comunità alessandrina.
Al di là del valore intrinseco di documenti, argenti e tessuti storici esposti, la loro esistenza denuncia l’importanza di una comunità che nel Settecento aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli, con circa 420-430 persone censite nel 1761. Andando a ritroso nel tempo, il primo nome documentato è quello di Abramo Vitale de Sacerdoti, che nel 1490 aveva ottenuto il diritto di risiedere in città purché gestisse un banco di prestito. All’epoca la città era sotto il dominio dei Duchi di Milano e vi sarebbe rimasta fino ai primi del Settecento, momento del passaggio ai Savoia. Prima del Quattrocento c’erano stati altri insediamenti ebraici, datati fin dal XIII secolo e composti da quelle famiglie di origine francese e germanica che ben prima della cacciata degli ebrei dalla Spagna si erano trasferite nei territori del Piemonte.
Tra gli altri centri interessati da tali migrazioni vanno citate Casale Monferrato, dove ancora oggi resiste una comunità ebraica piccola ma vivace, e Moncalvo, dove invece la comunità si è ormai estinta. Qui l’antica Sinagoga in piazza Carlo Alberto, l’unica in Europa che si affaccia sulla piazza principale di un centro cittadino, è stata smantellata nel 1951 e il suo mobilio con il soffitto ligneo sono stati trasferiti in Israele. Non più agibile, conserva però la semplice facciata dai due portali simmetrici, restaurata nel 2014, mentre è ancora visitabile il cimitero, le cui tombe più antiche risalgono al Settecento.
Tornando ad Alessandria, la famiglia dei Vitale sarebbe presto diventata una piccola potenza, sia nell’ambito della comunità sia negli equilibri politici locali. Si stima che a fine Seicento dei 230 ebrei residenti 170 si chiamassero Vitale e che questi decidessero se e quali correligionari potessero stabilirsi in città. Sarebbe stato inoltre uno di loro, Simone, a bloccare nel 1597 l’istituzione del ghetto nonché l’espulsione imposta dagli Spagnoli, al potere dal 1535. Con la guerra di successione spagnola del XVIII secolo Alessandria sarebbe poi passata ai Savoia, che mantennero i diciotto privilegi (tra cui il diritto di residenza, di commercio e di culto) ottenuti dalla comunità, ma nel 1724 imposero il ghetto e l’obbligo di indossare un segno distintivo.
Fatta salva la breve parentesi napoleonica del 1797, che come altrove ne aprì le porte, il terzo ghetto più popoloso del Piemonte sarebbe rimasto attivo fino al 1848. Si trovava nella cosiddetta Contrada degli Ebrei, quel quartiere cioè nel centro della città delimitato dalle vie Milano, Migliara, dei Martiri e Vochieri. Era su queste strade che si aprivano le botteghe di tessuti, sete e cappelli gestite da molti rappresentanti della comunità, con le abitazioni collegate da cortili e dotate di ballatoi, balconi e passaggi interni che consentivano la mobilità e quel poco di spazio vitale in più. Dopo gli interventi urbanistici dell’Ottocento oggi di questa intricata architettura è rimasto poco, ma passeggiando nell’antico quartiere è ancora possibile distinguere nelle vecchie case la struttura originaria, soprattutto negli stretti androni di alcuni palazzi delle strade adiacenti al Tempio. Nonostante la segregazione imposta, però, la vita degli ebrei di Alessandria si intrecciava strettamente con quella degli altri cittadini già prima che Carlo Alberto ne decretasse l’emancipazione. Nella sua Guida all’Italia Ebraica, Annie Sacerdoti racconta che nel 1835, durante un matrimonio, crollò il pavimento della sinagoga e che tra i 42 morti 17 erano cristiani. Un episodio drammatico che dimostra però quanto fossero intrecciate le esistenze delle diverse comunità.
Passando alla ben più solida sinagoga appena restaurata, questa aveva preso il posto di una sala di preghiera ormai scomparsa nascosta in un cortile di via Migliara. I suoi lavori erano iniziati nel 1967, nel pieno dell’euforia portata dall’emancipazione, ma già alla sua festosa inaugurazione del 1871, avvenuta alla presenza di una gran folla con le autorità cittadine riunite intorno ai rabbini officianti, risultava sovradimensionata rispetto a una comunità che si stava già assottigliando.
Non si può comunque biasimarne l’ambizione, né tanto meno la bellezza, tornata oggi a risplendere nonostante ad Alessandria non risiedano quasi più ebrei. Sezione della comunità di Torino dal 1985, quella alessandrina ha tra i pochi rappresentanti che ancora vivono in città la professoressa Paola Vitale, delegata che con grande affetto e attenzione ha seguito i lavori quasi trentennali di recupero della Sinagoga e ha partecipato con sorridente emozione alla sua riapertura. Come ricordato nell’occasione dal presidente della Comunità di Torino Dario Disegni, il Tempio di Alessandria non potrà officiare con regolarità le funzioni religiose, ma si prevede che possa ospitare funzioni in alcuni momenti dell’anno, eventualmente anche grazie a raduni di giovani provenienti da altre città italiane.
Nell’attesa, si potrà visitare come turisti quella che è considerata una delle sinagoghe più rilevanti d’Italia. Progettata dall’architetto Giovanni Roveda, presenta uno stile eclettico evidente fin dalla facciata rossa dalle decorazioni neogotiche, con tre ordini di finestre con lesene e sagomature bianche, l’ingresso sovrastato dalle Tavole della Legge e una lapide che ricorda i deportati. L’interno vede al pian terreno il Tempietto invernale mentre la grande Sinagoga si trova al piano superiore. La sala di preghiera presenta una struttura rettangolare che come tanti altri templi dell’emancipazione si ispira alle chiese cristiane, con la Tevah e l’Aron riuniti nello stesso spazio davanti al quale sono disposte le file dei banchi per la congregazione. Sui lati corti si aprono due ordini di logge, definite da esili colonne: sulla parete d’ingresso si trovano le gallerie del matroneo, mentre intorno alla grande nicchia con l’Aron sono collocati la cantoria e l’organo.
Gli arredi non sono quelli originari, andati purtroppo distrutti ben prima dell’alluvione del 1994. A devastare la Sinagoga e renderla inutilizzabile aveva già provveduto la furia nazifascista, con i saccheggi degli interni avvenuti a partire dal dicembre del 1943. Nel dopoguerra vi erano stati portati gli arredi provenienti dalle due sinagoghe ormai smantellate di Nizza Monferrato e di Acqui Terme. Di queste due comunità è rimasto ormai poco più del ricordo. Nel caso di Nizza, ha contato una presenza ebraica dalla prima metà del Cinquecento ai primi decenni del Novecento, con 79 ebrei residenti al momento dell’istituzione del ghetto. Dopo l’emancipazione, gran parte dei suoi appartenenti si sarebbero spostati verso i centri maggiori e già prima della seconda guerra mondiale la sinagoga, ospitata dal palazzo De Benedetti nella piazza del municipio, sarebbe stata smantellata con gli arredi trasferiti appunto ad Alessandria.
Discorso analogo vale per la comunità di Acqui Terme. Chiusa dal 1731 in un ghetto compreso tra due grandi palazzi in piazza della Bollente, nel 1761 contava 239 persone e al momento dell’emancipazione aveva superato il mezzo migliaio di persone. Per poterle accogliere tutte, l’antico oratorio di via Portici Saracco era stato sostituito nello stesso luogo da una più grande e monumentale sinagoga, inaugurata nel 1888. La costruzione del Tempio dallo stile classico pompeiano sarebbe stata accompagnata però dal progressivo declino della comunità, anche qui attirata dalla vita nei centri più grandi. Vandalizzata nel 1971, alla vigilia del suo riconoscimento come monumento nazionale, ha ceduto gran parte degli arredi alla sinagoga di Alessandria e oggi non ne resta che il perimetro e una lapide posta all’ingresso dell’edificio che la ospitava.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.